Il poeta del legno e del mare: Achille Spagnoli, l’uomo che dà voce alle barche

Nel silenzio dei cantieri navali, c’è ancora chi lavora il legno come si parla a un amico. Achille Spagnoli non si definisce un mastro d’ascia, ma ogni tavola che tocca racconta una storia. Un mestiere antico, ormai quasi scomparso, che vive solo grazie alla passione di pochi
Il poeta del legno e del mare: Achille Spagnoli, l’uomo che dà voce alle barche

C’è un sapere che non si insegna tra i banchi di scuola. Si impara in silenzio, guardando. È il sapere delle mani, degli occhi, del tempo. È quello che ha portato Achille Spagnoli a diventare, senza volerlo, uno degli ultimi custodi dell’arte della costruzione navale in legno.

Non ha titoli, né certificazioni. “Non sono un vero mastro d’ascia”, precisa con umiltà. “Non ho seguito un percorso scolastico tradizionale. Ho imparato stando nei cantieri, osservando chi sapeva davvero lavorare il legno. Ho rubato con gli occhi”. Eppure, quando parla del suo mestiere, ogni parola trasuda rispetto e passione. E si capisce che maestro lo è diventato sul serio, nel senso più profondo.

Il legno per lui non è solo materia: è presenza viva. “È duro, aspro, oppure morbido e scivoloso. Lucido o opaco, appena trattato o lasciato marcire sotto la pioggia. Il legno cambia, si adatta. Soffre. Ma poi ritorna a nuova vita”. Lo dice come si parlerebbe di un vecchio amico.

Lavorare su una barca non è mai un gesto meccanico. Ogni imbarcazione ha un’anima, ogni restauro è un atto d’amore. “Come gli uomini, le barche non sono mai tutte uguali. Cambiano per materiali, per provenienza, per destino. Anche il legno stesso ti parla, ti suggerisce cosa vuol diventare”.

E se le tecniche costruttive si sono evolute nel tempo, la sostanza non è cambiata. “I principi sono gli stessi. Sono cambiate le linee, i materiali, il design. Ora usiamo viti inox al posto dei vecchi chiodi di rame ribattuti. È tutto più rapido, certo. Ma quando durante un restauro trovi un chiodo di rame ancora intatto dopo decenni, non è solo un pezzo di metallo: è un’emozione”.

Le nuove tecnologie, come le colle epossidiche, hanno modificato il modo di intervenire, ma non hanno cancellato la necessità di conoscere davvero il materiale. “La scelta del legno resta fondamentale. Alcune essenze sono perfette per l’ossatura, altre per il fasciame, altre ancora per le rifiniture. Ma non basta sapere: bisogna ascoltare. A volte è la fibra stessa a suggerirti cosa fare”.

Il suo racconto è fatto di gesti, di lentezza, di attenzione. Di una quotidianità che non ha l’ambizione di diventare “impresa”, ma che conserva qualcosa di profondamente autentico. E proprio per questo, è un mestiere che oggi pochi scelgono. “I giovani si fermano all’incanto del gesto, ma poi capiscono che non ci sono grandi prospettive economiche. È un lavoro che ti prende tutto: tempo, forze, dedizione. Non promette ricchezza, né carriera. Ma se lo ami, ti restituisce il senso”.

Nel mondo delle professioni che spariscono, quella del mastro d’ascia rischia di diventare solo una voce nei libri di storia. Ma finché ci sarà qualcuno come Achille Spagnoli, disposto ad ascoltare il legno, a lavorarlo come se fosse carne viva, a raccontarne il respiro, allora questa voce continuerà a farsi sentire.

Qual è il lavoro di un mastro d’ascia?

In tutta sincerità, non mi sento di definirmi un mastro d’ascia nel senso tradizionale. Non ho seguito corsi ufficiali, né ho conseguito qualifiche riconosciute. Quello che so l’ho imparato vivendo il cantiere, respirando segatura e ascoltando il legno.

Lavorare una barca significa entrare in dialogo con ogni sua parte: la forma, il materiale, la provenienza. Ogni intervento è diverso, perché ogni barca è una creatura a sé. E ogni volta che metto mano a una tavola, scopro qualcosa di nuovo. Non si smette mai di imparare, non davvero, non in questo mestiere.

Come si diventa mastri d’ascia?

Oggi esistono percorsi precisi, con corsi di formazione e apprendistati riconosciuti. Ma io credo che il vero mestiere si apprenda solo accanto a chi lo fa da una vita. È un sapere che passa per le mani e per gli occhi. Devi stare lì, osservare come si taglia una curva, come si adatta una tavola, come si ascolta il legno prima di toccarlo. Solo così puoi iniziare a capire davvero cosa significa costruire o restaurare un’imbarcazione in legno.

Come si trova e come si produce il legno corretto per la costruzione navale?

Il legno si trova, sì, ma non tutti i legni sono uguali. Alcune essenze usate un tempo oggi sono rare o costose. Ma più che cercarlo, il legno bisogna saperlo scegliere. Ci sono fibre più adatte alla struttura portante, altre per le parti immerse, altre ancora per gli interni o le finiture. Ma spesso è il legno stesso a dirti cosa vuole diventare, se lo sai ascoltare. Non si tratta solo di tecnica, ma di sensibilità.

Che differenze ci sono tra le tecniche di costruzione odierne e quelle di 50 anni fa?

I principi non sono cambiati. La barca, in fondo, è sempre un corpo da far galleggiare, resistere, navigare. Ma è cambiata la forma: le linee d’acqua, l’estetica, i tipi di fasciame. Oggi i progettisti mettono molto più del proprio stile nel disegno. E poi ci sono materiali nuovi, attrezzature che velocizzano. Le viti in acciaio, ad esempio, hanno preso il posto dei chiodi di rame ribattuti. È più rapido, certo, ma forse meno romantico.

Capita ancora di trovarli, quei vecchi chiodi, durante un restauro. E quando succede, è come scoprire un frammento di passato ancora vivo. Anche colle e resine hanno cambiato le regole, ma quello che conta è non dimenticare l’anima della barca, la sua storia, quando si interviene.

Sembra che la resina epossidica sia diventata una specie di elisir miracoloso per il legno, cosa ne pensa?

È un materiale utile, e se usato bene funziona. Ma non è una bacchetta magica. Non può sostituire la conoscenza, la perizia, né tanto meno il rispetto per il legno. Ogni barca ha una storia, una struttura, una vita: bisogna capire se ha senso usare certe tecniche o se è meglio intervenire alla vecchia maniera, togliendo e rifacendo, con cura e pazienza. La resina può aiutare, ma non deve mai diventare un pretesto per fare le cose in fretta.

C’è interesse da parte dei giovani per il mestiere?

Purtroppo, molto poco. Qualcuno si avvicina, attratto dall’aspetto romantico, dalla bellezza del gesto. Ma poi capisce che non è un lavoro facile, né tantomeno redditizio. È un mestiere che chiede tanto e promette poco, se parliamo di soldi o di carriera.

Ma quello che ti dà – se lo accetti – è qualcosa di raro: la possibilità di custodire una tradizione, di ridare vita a oggetti che sembrano inerti ma che, in realtà, portano con sé il respiro del mare, di chi li ha costruiti, di chi ci ha navigato. È un mestiere che parla di tempo, di mani, di memoria. E non tutti sono disposti ad ascoltarlo.