“Amo, lloro, río, sueño” recita Alma Llanera, l’inno non ufficiale del Venezuela, rappresentazione perfetta del sentimento che domina attualmente il Paese, alle prese con il tracollo del sistema chavista
La crisi è su più fronti, anzi su tutti i fronti: istituzionale, economico, politico, sociale, sanitario.
Il Paese con le più grandi riserve di petrolio del mondo, che ha basato la sua economia sull’esportazione di questo prodotto non essendo in grado di raffinarlo né di distribuirlo, è anche quello che più sta soffrendo il crollo del prezzo del greggio.
La mancanza d’investimenti, dovuta anche alla crociata contro il neoliberismo voluta da Hugo Chávez e dal suo successore dal 2013, Nicolás Maduro, non manca di sollevare perplessità nei confronti della sostenibilità del modello economico chavista, con le spaventose previsioni del Fondo Monetario Internazionale di un tasso d’inflazione del 700% entro la fine dell’anno (quello dei prodotti alimentari e delle bevande tocca già quota 200%) e un debito sovrano, sommato anche a quello di Pdvsa, il colosso petrolifero nazionale, che si attesta sui 62 miliardi di dollari.
Se, comunque, la questione petrolio potrebbe lentamente risolversi visto il recente rialzo dei prezzi, resta una congiuntura assolutamente sfavorevole ad accompagnare l’operato del delfino di Chávez, ex autista della metro di Caracas, che oggi paga gli effetti della politica del suo predecessore.
Maduro ha ricevuto in eredità un enorme deficit pubblico a cui ha contribuito anche la mastodontica campagna elettorale del PSUV (Partito Socialista Unito del Venezuela) nel 2012, tra imponenti manifestazioni aperte da concerti dei gruppi musicali più in voga nel Paese e premi-fedeltà come la spada in oro ornata da più di mille diamanti regalata a Rubén Limardo, lo schermidore accolto come un eroe della patria per aver riportato un oro olimpico a Caracas dopo anni di mancate vittorie.
Ad aggravare questo quadro già disastroso, ci ha pensato la siccità causata dal Niño che ha prosciugato i bacini e creato problemi per la stessa acqua potabile, nonchè una profonda crisi alimentare dettata dall’abbandono della produzione in un sistema in cui il prezzo di alcuni prodotti di prima necessità (stabilito dal governo) è sceso al di sotto dello stesso costo di produzione.
L’effetto domino non si è fatto attendere, scatenando l’emergenza sanitaria con farmaci e forniture mediche destinate al solo smercio sul mercato nero e l’energia elettrica (prodotta per il 70% da centrali idroelettriche i cui invasi sono a secco) così scarsa da non permettere neanche il funzionamento di macchinari salvavita e generatori d’emergenza che intervengano nei continui blackout.
Disordini e saccheggi sono all’ordine del giorno e a nulla serve il pugno di ferro usato dal governo contro la fame ormai endemica, nulla vale la minaccia a tutte le fabbriche che hanno interrotto la produzione di essere “occupate dal popolo” e ai loro proprietari di finire incarcerati o l’invocazione di uno stato d’emergenza che consente la sospensione di inalienabili diritti costituzionali, contro un destino di povertà e morte.
Una lotta per la sopravvivenza che non risparmia neanche la politica e i rapporti tra il partito di governo e l’opposizione che, dal dicembre 2015, detiene la maggioranza in parlamento ( in Venezuela vige un sistema elettorale parallelo che distingue il voto di lista da quello nominale): a gennaio l’opposizione ha stabilito lo stato di emergenza umanitaria per il Paese, consentendo così l’arrivo di aiuti internazionali, ma Maduro ha respinto la legge; ad aprile i deputati di opposizione hanno votato per la destituzione del ministro dell’Alimentazione, salvo poi l’annullamento della decisione da parte di Maduro e, infine, lo scontro in atto sulla legittimità di un referendum di revoca del mandato presidenziale.
A maggio sono state raccolte 1,85 milioni di firme (ne bastavano meno di 200.000) per destituire Maduro, tuttavia l’iter burocratico per l’approvazione della richiesta è ancora lungo visto che, sempre ammesso che il referendum si faccia, servirebbero i voti di più di 7.500.000 venezuelani, ossia quelli che hanno votato per Maduro nel 2013. Numeri non così eloquenti se si pensa che lo scarto alle ultime presidenziali era di appena 200.000 voti. Ma i tempi sono davveri stretti per l’opposizione, dal momento che se non si realizzasse il referendum entro il 10 gennaio 2017, l’incarico di presidente potrebbe essere assunto da Aristobulo Isturiz, attuale vicepresidente del Paese e delfino di Maduro, che resterebbe in carica fino al 2019.
Non pochi ostacoli si presentano, dunque, lungo il cammino referendario, su cui si affaccia anche lo spettro della repressione e della tortura per gli oppositori, soprattutto giovani attivisti e studenti che hanno partecipato alle recenti manifestazioni di protesta. È nota l’esistenza de «La Tumba», l’ex caveau di una banca, sotto un edificio di piazza Venezuela, nel centro di Caracas, trasformato in una prigione sotteranea. Attualmente qui sono reclusi tre dissidenti, contollati 24 ore al giorno da telecamere e microfoni ovunque, segregati sotto terra in celle microscopiche, senza finestre e da cui possono uscire a prendere aria solo per quaranta minuti alla settimana, di prima mattina, quando spesso non è ancora uscito il sole.
Condizioni disumane che fanno crescere la tensione attirando, finalmente, l’attenzione internazionale, con l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) che potrebbe decidere di applicare la “Carta democratica”, il procedimento mirato ai Paesi in cui l’ordine democratico viene minacciato.
Martina Morelli