Alessandro Dambrosio, la mano italiana che disegna le auto giapponesi

Alessandro Dambrosio è un rinomato designer automobilistico italiano, nato a Milano nel 1973. Oggi ricopre un ruolo chiave in Mitsubishi, dove disegna le auto del brand giapponese.
Alessandro Dambrosio, la mano italiana che disegna le auto giapponesi

Con una laurea in Disegno Industriale presso il Politecnico di Milano, ha iniziato la sua carriera nel settore automobilistico presso Lancia, Alfa Romeo e Maserati all’interno del gruppo Fiat per poi proseguirla diversi anni nel gruppo VW. Oggi è Executive Design Director di Mitsubishi. La sua esperienza si è consolidata nel corso degli anni con ruoli di crescente responsabilità. Dambrosio ha ricoperto posizioni chiave presso importanti case automobilistiche, tra cui Lancia e Alfa Romeo, dove è stato prima Senior Exterior Designer poi Chief designer veicolo al Centro Stile lavorando su progetti come la 166FL, la 159 e la “Kamal” concept car.

Nel 2007, è stato nominato Exterior and Interior Chief Designer per la marca Maserati, contribuendo al disegno di modelli iconici come la Grancabrio, la MC Concept e la Ghibli. Nel 2010 ha intrapreso una nuova sfida nel Gruppo Volkswagen, assumendo sia il ruolo di assistente di Walter de Silva, Capo di VW Group Design, nonché di responsabile dei centri stile di Braunschweig e Monaco di Baviera, rispettivamente dedicati al gruppo VW e al gruppo Audi, inclusi Lamborghini, Ducati e Audi Industrial Design. Qui, ha contribuito a progetti di rilievo come la VW Polo e Passat berlina, le Audi A4 e A5, show-car come la Lamborghini “Egoista” o la Audi “TT Sportback. Ha anche supervisionato progetti non automobilistici, come la Ducati Bobber show bike e l’Audi Robot “Lunar Quattro”.

Nel 2018, Dambrosio ha assunto il ruolo di Executive Design Director di Mitsubishi Motors. Nel mondo, lui è uno dei pochi italiani a ricoprire un ruolo simile in una grande azienda automobilistica straniera. In questo nuovo incarico guida i tre studi di Design di Mitsubishi; due situati in Giappone ed uno in Germania. Il suo obiettivo? Creare auto che siano non solo belle, ma baciate anche da una modernità senza tempo: che piacciano oggi, ma che debbano conquistare l’occhio anche domani.

Tra gli ultimi riconoscimenti ottenuti citiamo il Japan Good Design Award 2023 (Mitsubishi new Triton, Mitsubishi X-Force, Mitsubishi Delica “mini”), il 2023/2024 Japan Car of the Year (Mitsubishi Delica “mini”), il Vietnam Design Award 2023 (Mitsubishi X-Force) e l’IF Design Award 2024 (Mitsubishi new Triton e Mitsubishi X-Force).

Nel 2011 è stato insignito da Automotive News Europe, del premio di Rising Stars of the year. La sua carriera e la sua esperienza, però, ce la siamo fatta raccontare direttamente da lui.

Alessandro, cosa ti ha ispirato all’inizio del tuo percorso e cosa ha influenzato la tua carriera?

Devo ringraziare mio padre, a lui devo la mia grande passione sia per il disegno che per le auto; realtà che sono riuscito a coniugare col mio lavoro. Lui è un pittore strepitoso e mi ha trasmesso la passione per il disegno, pur essendo per lo più un paesaggista; tutt’altro quindi rispetto a ciò che faccio. Quando ero un bambino, la nostra casa abbondava di riviste di tecnica di disegno. Sono certo che tutto ciò in qualche modo mi abbia davvero influenzato. Penso di essermi appassionato all’arte soltanto vedendo mio padre disegnare. Ne rimanevo incantato. Da solo, ma sempre con il suo aiuto, ho poi intrapreso il mio percorso. In tutto ciò poi papà è anche un grande appassionato di auto, quindi certamente anche questo aspetto non ha fatto altro che spingermi ad abbinare le due passioni: il disegno e le automobili. Poi ovviamente presumo che ci fosse qualcosa di naturale in me, non parlo di talento ma di una certa predisposizione, che aveva solo bisogno di essere scoperto prima e coltivato poi. E mio padre ha avuto un grande ruolo sotto questo aspetto.

Hai lavorato in Fiat, Audi, Volkswagen, dal 2018 sei in Mitsubishi. Quali sfide hai affrontato nel passaggio tra una realtà all’altra e ti sei mai dovuto adattare?

Adattarsi è una delle regole più importanti. Chi non si adatta ha, metaforicamente parlando, vita breve. Non esiste una persona, un manager, che si catapulta in una nuova realtà e detta subito le proprie regole. Anche le persone dotate di grande personalità, hanno il dovere di adattarsi ai nuovi contesti in cui si trovano, nel rispetto anche della cultura in cui si va a vivere e lavorare. E l’adattamento è sicuramente una sfida da superare. La lingua è un altro “piccolo” particolare da non trascurare. Il tedesco nel tempo è diventato la mia seconda lingua. In Giappone c’è una cultura molto silente, spesso molto difficile da decifrare, da inquadrare; in certe situazioni il giapponese sa essere particolarmente criptico. Ma una volta che ci si cala in una nuova realtà, pur rimanendo fedele alle proprie abitudini, credo si debba necessariamente adattarsi a quelle di cui sei ospite. È anche una forma di rispetto verso la propria “nuova casa”, a maggior ragione in una cultura così diversa da quella di appartenenza.

Quali sono i principali obiettivi che hai perseguito o cerchi di perseguire in Mitsubishi?

Sicuramente quelli di aiutare l’azienda a diventare un riferimento nel campo del design automobilistico nel mercato asiatico, il principale in cui operiamo. Nell’ultimo periodo abbiamo orgogliosamente vinto 6 design award, abbiamo raggiunto tanti obiettivi ma alla fine il traguardo da raggiungere è quello sopracitato. L’obiettivo ovviamente è disegnare e realizzare auto che piacciano sempre di più, che abbiano un design che sia, come lo chiamiamo noi, “timeless modernity”. L’unicità dei nostri modelli infatti è un altro aspetto su cui puntiamo molto.

Hai mai nostalgia dell’Italia o voglia di tornarci?

Sempre, perché credo che la terra d’origine rappresenti le nostre radici. I primi tempi qui in Giappone sono stati molto spensierati. Confesso però che il periodo pandemico, e anche in parte post pandemico, sia stato davvero molto difficile. Non mi sono potuto muovere per quasi 2 anni vista l’impossibilità di viaggiare dal Giappone e verso il Giappone. Ma l’ho vissuta anche come una forma di crescita personale. In una situazione “standard”, comunque, riesco solitamente a rientrare in Italia circa 3 volte all’anno.

Pensi di aver esportato qualcosa di italiano nelle tue esperienze?

Penso certamente di aver contribuito al gusto e alla ricerca per le giuste proporzioni, di aver esportato un processo digitale nel mio lavoro che qui non “masticavo”cosi fluentemente, arrivando a stravolgere, con il supporto dei miei responsabili, il processo di stile all’interno del nostro dipartimento. Prima con Tsunehiro Kunimoto e ora con Seiji Watanabe ho avuto la fortuna di avere a che fare con due professionisti e soprattutto due persone davvero formidabili e dalle quali ho appreso moltissimo. Tornando “a bomba” sulla domanda, tutto ciò non credo si possa tradurre in qualcosa di necessariamente italiano. Semplice professionalità.

All’estero hai dovuto superare dei preconcetti legati alla nostra nazionalità?

Questo credo capiti a tutti. In questo senso riprendo le parole che Sergio Marchionne rilasciò in un’intervista qualche anno fa. Citando Cesare Pavese (noto scrittore e poeta italiano del 900, ndr) «viaggiare è una brutalità, obbliga ad aver fiducia degli stranieri, e a perdere di vista i contorni familiari della casa e degli amici. Ci si sente sempre fuori equilibrio, nulla è nostro, tranne l’aria, i sogni, il mare e i cieli». Durante le esperienze oltre confine, specialmente i primi tempi, si viene spesso trattati con diffidenza, quindi la mia risposta è “sì”. Credo altresì che il lavoro, l’educazione, il rispetto verso gli altri, la costanza e la professionalità aiutino a guadagnare la fiducia reciproca. Questo rappresenta sicuramente un valore aggiunto. Tuttora alcuno dei miei più cari amici sono giapponesi.

Ti senti uno dei tanti italiani cervelli in fuga?

Non saprei, ma vista la mia esperienza ormai quindicennale oltre confine direi di sì. Mi rincuora l’avere sempre avuto, durante questi anni, parecchi attestati di stima da persone soprattutto non italiane. Ti racconto un aneddoto esemplificativo in questo senso. Lo scorso novembre abbiamo presentato a Tokyo un modello di concept car, la D-X concept, tra i più apprezzati della rassegna. Nessuno tra i giornalisti italiani in loco si è presentato allo stand Mitsubishi anche solo in quanto incuriosito dal fatto che l’Executive Design Director di Mitsubishi era loro connazionale; cosa estremamente rara considerando che in tutto il mondo gli italiani che occupano una posizione simile in grandi case automobilistiche straniere siamo probabilmente in due. Tra le tante persone, e personalità, che si sono interessate al Concept durante l’evento, molti capi del design di altre aziende concorrenti, esperti del settore e giornalisti: di tutte queste nessuna era italiana, e questo credo sia una cartina al tornasole che esemplifica lo stato di “rassegnazione”, e per rassegnazione mi riferisco solo alla domanda, che mi avete posto, nel quale ogni tanto è facile scivolare.

Ci sono insegnamenti per un giovane che si appresta alla prima esperienza lavorativa all’estero nel tuo campo?

In primis bisogna essere umili. Ho avuto contatti con molti giovani designer che, ahimè, hanno tutto fuorché l’umiltà. Diventare car designer vuol dire dover imparare un mestiere, come si imparava una volta in “bottega”. Impegno ma anche una grande determinazione e devozione verso il proprio lavoro e verso l’apprendimento che ne consegue. Contestualizzare e studiare la cultura nella quale si opera e nella quale si vive. Spesso possono non coincidere affatto. Come tutte le professioni credo che alla base di tutto, debba ovviamente esserci una smisurata passione per ciò che si fa, specialmente qui dove la componente emozionale la fa davvero da padrona. Si vanno infatti a “toccare” i sentimenti delle persone, che vengono conquistati soprattutto da ciò che è “bello”. È il bello è oggettivo.