A Jorit Agoch non piacciono le classificazioni: non si sente artista, se per artista si intende chi produce semplicemente dipinti, ma neanche street artist, se dietro si nasconde soltanto chi pittura i muri delle strade. Jorit Agoch è un writer, questo possiamo dirlo, che ogni volta che dà vita ad un murales lo fa perché ha qualcosa da dire.
Padre italiano e madre olandese, classe 1990, nato e cresciuto a Quarto, una delle periferie più difficili dell’area nord di Napoli. Il nome originario è tipicamente napoletano, ma ormai tutti lo conoscono con il suo nome d’arte, un riferimento alle due persone che lo hanno ispirato da ragazzino: Jorit è il nome d’arte di un graffitaro old school del quartiere Soccavo di Napoli e Agoch è l’acronimo di codice che usava insieme ad un altro suo amico graffitaro.
Il suo ultimo lavoro è stato da record, per l’altezza su cui si sviluppa, 100 metri, e per il tempo in cui è stato realizzato, un mese: un murales pensato in occasione delle Universiadi, le Olimpiadi Universitarie, e raffigurante 5 eroi dello sport, ognuno originario di una delle 5 città che ha ospitato la competizione. Il risultato ottenuto è d’impatto e che sicuramente non lascia indifferente chiunque si prepari ad alzare lo sguardo per osservarlo.
Ecco, è proprio l’indifferenza uno dei nemici di Jorit. Forse è anche per questo motivo che ha scelto di disegnare volti, sguardi che necessitano di essere contraccambiati. I suoi soggetti sono attori, calciatori, cantanti, rivoluzionari, ma soprattutto uomini comuni che lottano nel quotidiano per affermare i propri diritti. Tutti vengono marchiati con due strisce rosse sulle guance che richiamano i rituali africani, in particolare la procedura della scarnificazione, cerimonia che segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta ed è legata al momento simbolico dell’entrata dell’individuo nella tribù. «Quella che rappresento – ci ha spiegato Jorit – è proprio una tribù umana: con quei segni caratterizzo i visi delle persone e ne faccio un simbolo di appartenenza. Sono persone che fanno parte di un’unica tribù, che rappresentano un ideale, persone che abbiano con il loro sguardo qualcosa da dire». Il volto diventa così la narrazione della storia dell’intera umanità, espressione di una bellezza dell’animo nonostante gli oltraggi della vita.
Tutti i graffiti sono di dimensioni ciclopiche, iper realistici, per alcuni aspetti anche classici. L’arte di Jorit è tecnicamente perfetta, ma non è figlia dei suoi studi in Accademia, molto più dei suoi viaggi. «L’Accademia non mi ha dato molto: nozioni tante, utili indubbiamente, ma non è ragione della mia formazione. Sono partito dalla strada, l’ho percorsa e in strada ho continuato».
Tra le terre che più gli hanno restituito in termini umani c’è sicuramente la Tanzania: «Ci sono stato quasi due mesi per ritornarci varie volte. Quei posti mi hanno fatto capire che per fare qualcosa di concreto è necessaria un’arte rivoluzionaria».
Ha girovagato tanto Jorit, ma è sempre tornato a Napoli, nella sua città. Qui ha probabilmente espresso la sua l’arte molto di più che in altri posti e tra i murales che più lo hanno reso noto c’è sicuramente il San Gennaro di Forcella, quartiere popolare nel ventre antico della città. Il patrono di Napoli, con sguardo serafico ma deciso, campeggia su un muro dei primi palazzi del quartiere e in qualche modo invita cittadini e turisti ad attraversare una zona conosciuta principalmente per i fatti di camorra. Quel San Gennaro non ha però le reali sembianze del santo, ma quelle di una persona comune, di un suo amico operaio napoletano. Il gesto è quello di santificare le persone del popolo, un po’ come faceva Caravaggio, affidandogli il compito di trasmettere emozioni.
Non c’è solo, e non soprattutto, una dimensione estetica nei lavori di Jorit, ma storie, personaggi rappresentativi di concetti che vengono veicolati attraverso la loro immagine. Nelle espressioni, accentuate dagli sguardi vividi, l’artista cerca di cogliere la tensione interiore del soggetto ritratto.
Anche laddove ad essere rappresentati sono personaggi noti, c’è sempre una dimensione comune che riequilibra l’opera e riporta la riflessione ad una dimensione comune. Si comprende così perché all’opera che ritrae Diego Armando Maradona si affianca – sul palazzo parallelo – il volto di Niccolò, un bambino autistico. In questo parallelismo su muro si annullano differenze e si diventa inesorabilmente uguali.
Jorit non attribuisce un compito salvifico alle sue opere, soprattutto se si parla di recupero urbano. Le sue opere, lo chiarisce, non sono fatte per abbellire le strade e neanche per risolvere problemi. I suoi lavori sono però un modo per risvegliare coscienze e renderle consapevoli dell’importanza di rivendicare i propri diritti. «Il disegno che decora non riqualifica, ma il murales che lancia un messaggio può abbellire prima di tutto la coscienza delle persone. Disegnare sulle pareti per decorare non porta a un cambiamento, la riqualificazione reale avviene solo se in quel quartiere si diffonde un messaggio in grado di dire qualcosa. Il resto è solo speculazione».
Al destino di Napoli e della sua terra Jorit ci tiene molto. Nato e cresciuto tra le strade della città, ha imparato molto dalla cultura popolare, la prima che può offrirti la possibilità di guardare oltre: «Si sta diffondendo molto l’idea di essere cittadini del mondo, ma la realtà è che se non conosci la tua terra, non puoi apprezzare le altre culture. Solo quando ho imparato e conosciuto la storia di Napoli mi sono posto il problema di conoscere la storia di qualcun altro. Bisogna prima radicarsi, poi si può apprezzare il resto».
Elisa Rodi