Il rapporto tra figli e genitori detenuti è un problema di cui si parla poco, anche se interessa un numero di persone certamente superiore alle detenute madri. I dati forniti dal DAP aggiornati al 30 giugno 2018 ci parlano di**: un totale di 47 madri detenute con 52 bambini di cui, 31 madri e 34 bambini negli ICAM, 16 madri e 18 bambini nelle sezioni nido delle carceri.**
Per quanto riguarda lo stato civile dei detenuti risulta, dai dati del DAP riferiti al 30 giugno 2018 che, 17.031 detenuti coniugati, 565 vedovi, 1.940 divorziati, 2.703 separati, 7.357 conviventi (queste ultime 4 categorie sono ancora più problematiche delle altre poiché oltre ai problemi legati alla condizione di detenzione hanno problemi di rapporti interpersonali il più delle volte deteriorati e difficilmente recuperabili, o come per i conviventi, problemi che riguardano il riconoscimento da parte delle istituzioni dello stato giuridico). Il totale dei figli che i detenuti hanno dichiarato di avere è di 58.913. Sono 8.056 i detenuti che hanno un solo figlio, 9.189 quelli che ne hanno due, 5.299 ne hanno tre, 2.185 quattro, 777 cinque, 320 sei, 291 oltre i sei figli.
Di questo si parlerà al Convegno di studio “Genitorialità in carcere e diritti dei figli dei detenuti”, organizzato dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e dalla Cooperativa Cecilia con il patrocinio del Ministero della Giustizia.
È provato che un detenuto che ha conservato i legami familiari rischia meno la recidività. Per questo diventa importante studiare misure che consentano di non disperdere questi legami ed intervenire, con altre, rivolte ai figli, che prevengano gli effetti devastanti derivanti dalla particolare situazione.
La genitorialità in una situazione come quella del carcere non ha possibilità di affermazione, vive problemi insormontabili. Esiste un’incompatibilità tra l’essere detenuto in un contesto chiuso e totalizzante come quello carcerario ed esercitare il ruolo genitoriale. Incompatibilità che deriva da limiti organizzativi, e normativi, lo stesso colloquio, che è l’unico momento di contatto con il proprio mondo relazionale, il più delle volte si trasforma in turbamento emotivo per le modalità e gli spazi in cui avviene, per i vincoli giuridici e di sicurezza che ne regolamentano lo svolgimento. Ma influiscono anche le inumane condizioni di vita causate dal sovraffollamento, dalla inadeguatezza delle strutture, dai tagli ai fondi destinati al trattamento intramurario, oltre che da implicazioni psicologiche emotive e relazionali.
Come è possibile promuovere il diritto alla genitorialità in carcere consentendo ai detenuti ed ai loro familiari di incontrarsi per soli sei colloqui al mese di un’ora, e solo se non residenti il tempo concesso può essere anche di due ore. Incontri che per gli internati e i sottoposti al 41 bis sono addirittura ridotti a quattro.
Come si può promuovere la genitorialità se non si applica il principio della territorialità della pena che, oltre a non sradicare il detenuto dal proprio contesto sociale, culturale e familiare, consentirebbe ai suoi parenti anche indigenti di potergli fare visita, di non sottoporre i bambini a viaggi estenuanti.
Per il bambino l’arresto di un genitore e la conseguente detenzione rappresentano una frattura nel contesto familiare un elemento di disadattamento. I bambini, vivendo l’assenza del genitore come abbandono, instaurano da subito un rapporto altamente conflittuale e il più delle volte manifestano la loro reazione con il rifiuto di incontrarlo. La separazione forzata tra genitore e figlio influisce in modo determinante nel tempo e nella biografia di ciascuno.
Oggi – pur se la convenzione internazionale sui diritti del fanciullo stabilisce che l’interesse dello stesso debba essere preminente su ogni decisione sia essa istituzionale che privata – dobbiamo chiederci quanto la nostra legislazione, i regolamenti e soprattutto la prassi penitenziaria rispettano questi diritti. Perché c’è una evidente contraddizione tra il rispetto dei diritti del fanciullo e la sua separazione forzata da un genitore perché detenuto; c’è un’evidente contraddizione quando si costringe il bambino ad entrare in carcere per far visita al genitore detenuto e sottostare a tutte le regole, volte esclusivamente alla sicurezza stabilite dall’art. 37 del DPR 230/2000.
Per un bambino o una bambina far visita al genitore detenuto significa attese interminabili, trattamenti umilianti e imbarazzanti; significa traumatizzanti perquisizioni, paure, incontri in ambienti disumani e sotto continuo controllo.