Si aprono a Pyeongchang i Giochi olimpici invernali numero XXIII. Tra questioni politiche e controversie sociali il mondo si ferma (o prova a fermarsi) in occasione delle Olimpiadi
Giochi dalla valenza doppia che, oltre allo sport, hanno l’obiettivo di placare le tensioni istituzionali che si sono create negli ultimi anni. Migliaia gli atleti provenienti da tutto il mondo, chi per giocarsi l’oro, chi per dimostrare il proprio valore e chi, semplicemente, per partecipare, per incarnare il motto decubertiano alla base di ogni evento sportivo.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare un’atleta che ha scritto una pagina di storia italiana alle Olimpiadi invernali. Era il 1994 e nella fredda Lillehammer Manuela Di Centa scaldava gli animi di ogni italiano incollato alla tv. Furono 5 le medaglie totali in tutte le specialità dello sci di fondo: 2 ori, 2 argenti e un bronzo. Manuela ha ricordato quei momenti insieme a noi, svelandoci cosa c’è dietro ogni successo e cosa c’è dopo ogni trionfo in pista.
Ci parla del suo primo approccio con gli sci? C’è stato un momento in cui ha capito che sarebbe diventata una campionessa?
Sono figlia di un maestro di sci, per cui con mio fratello Giorgio, ogni volta che nevicava, ci infilavamo gli sci che nostro padre aveva fabbricato. Giocare era una grande gioia, mi divertivo così tanto da credere che con gli sci ai piedi avrei fatto qualcosa di bello, di certo, però, non vincere le Olimpiadi.
Recentemente Olympic Channel si è arricchito di una serie di documentari sulle leggende azzurre. Una puntata sarà su di lei, come ha preso questa notizia e quali valori spera di tramandare ai giovani?
Mi ha fatto piacere perché non è una storia solo relativa all’atleta nel suo momento sportivo ma è un documentario che guarda alla persona, ponendo molta attenzione su quello che è stato dopo le vittorie in pista. Così si capisce come quell’energia proveniente dal passato spinga l’individuo a dare il suo contributo alla società contemporanea. La puntata su di me è stata utile perché ha contribuito a farmi fare il punto sul presente, sugli obiettivi raggiunti e su quelli futuri. Il valore che vorrei tramandare è quello legato al vivere quotidiano attraverso un preciso modo di pensare e di comportarsi, un modo di atteggiarsi verso quella che è la fatica e la difficoltà di molte situazioni. Perché dietro una vittoria ci sono momenti duri, ma che ti portano al successo.
Ma tra tutti gli sport invernali, perché proprio il più faticoso?
Perché le sue radici erano all’interno della nostra famiglia. Mio papà era sciatore e allenatore, quindi ci ha cresciuto con questo sport che mi ha consentito di uscire di casa e “camminare” fin dove volevo. La passione per lo sci di fondo è nata per gioco, con i miei fratelli e cugini: quando ero bambina non sapevo che quello fosse lo sci di fondo, per me era solo giocare con gli sci sulla neve. Non è stata una scelta, ma una crescita attraverso il gioco e il divertimento.
Cosa ha pensato negli ultimi metri precedenti la prima vittoria di Lillehammer?
Ho pensato che non mi potevo permettere di dire “ho vinto” finché non superavo la linea del traguardo. Sapevo di avercela fatta, ma non volevo andare incontro a un ipotetico errore. Mi giocavo tutto in quella Olimpiade perché venivo da 3 Giochi non molto positivi. In quella non volevo succedesse qualcosa per via della mia sciocchezza. Negli ultimi metri sapevo di aver vinto ma mi dicevo “fino in fondo, fino alla linea del traguardo”.
La rivalità agonistica con la Belmondo ha contribuito ad alzare sempre di più l’asticella? Come ha vissuto questo dualismo?
Assolutamente. Credo che fossimo come due galli in un pollaio, ma galli intelligenti e talentuosi. Era uno stimolo, e credo anche per lei fosse lo stesso. Lei è molto più giovane di me, ha trovato qualche porta aperta perché la squadra nazionale già era formata, mentre io ho dovuto lottare affinché questa nascesse. Dopo ci siamo trovate a condividere momenti di altissimo livello, dove indubbiamente lei era un grande stimolo per me e viceversa. Questo per due persone intelligenti e talentuose penso sia stato anche un esempio sia per il resto della squadra che per gli uomini.
Nota differenze sostanziali tra il movimento sciistico attuale e quello della fine anni 80 – inizio 90?
I tempi indubbiamente cambiano, ma quello che non cambia è che per vincere bisogna dedicare un pezzo di vita completamente allo sport. Non basta fare un tweet per dimostrare di essersi allenati, bisogna lavorare duro e mantenere una grande forza mentale. Oggi i giovani non credo sappiano quanto chi li ha preceduti abbia dovuto lottare per avere gli stessi diritti, in particolar modo le donne. Oggi credo che in molti diano per scontati certi aspetti.
Ripensa mai ai suoi momenti in gara? Nostalgia, orgoglio…cosa prova maggiormente?
A casa tengo nascoste medaglie e coppe perché non voglio pensare al passato, ma a quello che mi aspetta. Quello che ho vinto è dentro di me, quindi mi piace essere attiva in altri progetti piuttosto che pensare a quella che sono stata. Di base il pensiero e il cuore sono proiettati al domani.
Tra gli ori a cui tiene maggiormente c’è sicuramente quello messo al collo di suo fratello a Torino nel 2006. Ci descrive questa emozione?
Un’emozione indescrivibile, nessuno dei due riusciva a dire niente. E’ stato qualcosa di magico, condiviso tra due fratelli, per di più in mondovisione. Un momento veramente unico, una sensazione che paralizza le gambe, ma bellissima. Prima credevo che l’emozione più grande fosse vincere una gara, ma quella di premiare Giorgio supera tutte le altre.
Vuole augurare qualcosa agli atleti impegnati alle Olimpiadi?
Auguro che ognuno riesca a dare il massimo di se stesso. Non pensate a questioni sociali e politiche, la pista è là ed è uguale per tutti. Focalizzatevi su quella.
Spero che ognuno riesca a concentrarsi sulla sua parte tecnica e non sul resto, perché l’atleta deve essere totalmente focalizzato sul momento in cui è in gara.