Era la notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014 quando dei membri di Boko Haram (l’organizzazione terroristica jihadista sunnita) rapirono 223 studentesse in una scuola di Chibok, nel nord-est della Nigeria: i rapitori svanirono insieme alle loro vittime lasciando il mondo sconvolto e senza notizie per più di un anno.
Nei giorni successivi al rapimento partì la campagna virale #BringBackOurGirls (#ridatecilenostreragazze) che ebbe un enorme risonananza mediatica, con la ex First Lady Michelle Obama in prima linea.
Negli ultimi 2 anni, tra fughe, raid militari e trattative governative, più della metà delle studentesse sono state liberate, ma non tutte hanno affrontato allo stesso modo la scarcerazione; infatti alcune di loro sono tornate indietro dai loro rapitori. Il facile collegamento logico porta a trovare la soluzione in una diffusa, quanto anomala, Sindrome di Stoccolma, ovvero quella condizione psicologica che comporta l’attaccamento di una vittima nei confronti del suo rapitore, ma prendendo d’esempio il caso di Aisha Yerima, una donna di 25 anni rapita nel 2013 e liberata dai militari di Lagos nel 2016, ci si rende conto che esiste una realtà diversa: la donna, durante il periodo di detenzione definiva la vita con l’organizzazione terroristica come “fiabesca”.
Dopo aver seguito e concluso il programma di de-radicalizzazione della Fondazione Neem, Aisha sembrava aver capito che la fiaba era solamente una bugia raccontata da degli estremisti, ma a maggio 2017 la ragazza è tornata – insieme a suo figlio, avuto dalla relazione con il terrorista di Boko Haram – nella foresta, dove ha raggiunto i suoi rapitori. Il motivo del ripensamento? Il marito si era messo con una rivale.
Come racconta la direttrice della Fondazione, Fatima Akilu «Il trattamento riservato alle donne rapite non è sempre uguale, dipende dal campo di detenzione e dal suo comandante. Quelle trattate meglio sono quelle che hanno deciso volontariamente di sposare membri del gruppo». È così che Aisha è riuscita a ottenere rispetto e influenza sul marito-terrorista, avendo avuto oltretutto a sua disposizione un considerevole numero di schiavi. “Queste sono donne che, per la maggior parte, prima del rapimento, non avevano mai lavorato, non possedevano alcun potere e nessuna voce nelle comunità, quando, all’improvviso, sono diventate responsabili di gruppi che comprendevano tra le 30 e le 100 donne, ormai completamente sotto il loro controllo”, racconta Akilu.
Per alcune “mogli-padrone” ritornare alla libertà significa dunque tornare in un ambiente dove non hanno alcuna influenza e divengono spesso soggette a gerarchie generazionali.
Non c’è quindi da rimanere sorpresi dalle dichiarazioni fatte dalla scrittrice nigeriana Adobi Tricia Nwaubani, per la Bbc, secondo la quale si sa per certo che, come Aisha, sono decine le ragazze “tornate due volte”, prima nelle loro case e dopo, volontariamente, nelle foreste.
I motivi che legano le ragazze ai loro “mariti-killer” per la maggior parte delle volte non sono di natura personale, ma principalmente sociale. Riprendendo le parole della dott.ssa Akilu, occorre, infatti, considerare che, non solo “per queste persone è difficile tornare in una società in cui non potranno mai gestire quel tipo di potere” ma anche che una volta ritornate nelle loro case le ex prigioniere vengono spesso considerate annoba o paria (epidemia, donne del contagio).
Rientrare a pieno titolo nella società da cui sono state forzatamente allontanate diventa, quindi, un processo quasi impossibile, in particolare se hanno al seguito dei figli avuti dai terroristi, etichettati come “iene tra i cani”.
Stefano Valentini