Il D-day della Turchia è fissato per il 16 aprile, con il referendum sulla modifica alla Costituzione che potrebbe alterare i già fragili equilibri interni e, soprattutto, i rapporti con l’Europa
Era il 7 giugno del 2015 e il popolo turco andava alle urne per rinnovare il proprio Parlamento. In quell’occasione si schierava contro il disegno di Erdogan di portare nel Paese il presidenzialismo, affidandosi ai numeri di una risicata maggioranza e scegliendo di far entrare in Parlamento, per la prima volta, un partito che rappresentava soprattutto la voce dei curdi, l’Hdp.
Oggi Erdogan ci riprova, di nuovo con un referendum indetto per il 16 aprile che, in caso di vittoria, renderebbe il presidente anche capo dell’esecutivo, dandogli il potere di nominare ministri e autorità, emanare decreti, mantenere aperti legami con il proprio partito, l’Akp, proporre budget e, soprattutto, nominare metà dei membri delle più alte cariche giuridiche della Turchia, sciogliere il Parlamento e dichiarare lo stato d’emergenza.
Un cambiamento fondamentale per Erdogan che potrebbe, così, rimanere alla guida del Paese fino al 2029 dal momento che le modifiche costituzionali gli permetterebbero di candidarsi per altri due mandati.
Inoltre, con la riforma il numero dei parlamentari passerebbe da 550 a 600, mentre si abbasserebbe l’età dell’elettorato passivo: da 25 a 18 anni per candidarsi alla carica di deputato.
Se, per alcuni, l’esito positivo del passaggio referendario garantirebbe alla Turchia stabilità, per altri è lampante la deriva autoritaria che il Paese rischierebbe, compromettendo l’adesione all’Unione europea.
In due anni, del resto, lo scenario è irreversibilmente mutato.
L’Hdp ha perso consensi, colpito da attentati che il governo ha attribuito all’Isis e subendo il contraccolpo della guerriglia del Pkk che ha associato ancora una volta ai curdi l’accusa di terrorismo.
Ciliegina sulla torta, il fallito golpe del luglio 2016. Dichiarato lo stato d’emergenza, Erdogan ha potuto rastrellare i suoi avversari: dai militari infedeli al nemico Gulen, passando per l’intera opposizione, senza dimenticare quella stampa indipendente che aveva documentato l’intervento dei servizi segreti turchi nella fornitura di armi ai ribelli anti-Assad o la magistratura che gli si era scagliata contro con la cosidetta “Tangentopoli del Bosforo”.
Uno scenario che si complica ulteriormente se si guarda alla delicata posizione dell’Europa costretta a chiudere un occhio sulla violazione dei diritti e a ingoiare il rospo della escalation di dichiarazioni scomode del presidente, ultima tra le quali quella di un’Unione “fascista e crudele che non potrà più ricattare Ankara negando l’adesione all’Ue”, pur di mantenere il ruolo della Turchia come argine dell’ondata di rifugiati dalla Siria.
Erdogan, invece, guarda oltre. All’armonia che accompagna i rapporti con la Russia di Putin e al dialogo ripreso con gli States di Trump.
Domenico Daniele Battaglia