Ancora una volta la Tunisia è lo scenario di rivolte giovanili; le numerose manifestazioni di diplomati, laureati, professori e ragazzi portano all’ennesimo tentativo di suicidio. Se non sarà una seconda rivoluzione le somiglia molto, una protesta disperata che stavolta non chiede libertà, ma lavoro
Nonostante sia stata valutata a livello mondiale come l’unica primavera araba di successo e nel 2015 le sia stato assegnato un Nobel per la Pace e il Dialogo Nazionale, in Tunisia si registra tuttora un tasso di disoccupazione pari al 30%. Secondo gli osservatori negli ultimi anni il Paese si è concentrato quasi esclusivamente sulla transizione politica, lasciando da parte spinose questioni, quali i diritti socio-economici e il modello di sviluppo, rivendicazioni che erano invece proprio all’origine delle rivolte del 2011.
Il sindacalista Nobel per la pace Hussein Abassi garantisce che non sarà una seconda rivoluzione, ma di certo le somiglia molto ed è indubbiamente la più incendiaria protesta dai tempi di Ben Ali, che rivendica uno dei diritti inalienabili dell’umanità, quello al lavoro. Senz’altro è anche la manifestazione più minacciosa, rivolta contro il governo di Tunisi, che promette 60mila assunzioni, tre milioni di progetti, punizioni per i corrotti e concessioni di terreni demaniali. Ma non solo: si punta il dito anche contro la comunità internazionale che non ha investito nemmeno un euro nell’unica rivolta araba pacifica. Il premier tunisino Habib Essid è stato a Davos per chiedere sostegno economico, ma non ha avuto altra scelta che quella di rientrare cancellando tutti gli incontri.
Come al solito la protesta parte dai giovani; diplomati, laureati e professori, un popolo al di sotto dei 35 anni di età che si trova governato da un presidente della Repubblica di 89, da uno del Parlamento di 81, da un capo dell’opposizione di 75 e da un premier di 66. Lo slogan è: “posti di lavoro o un’altra rivoluzione”. Il coprifuoco notturno di quattro giorni decretato in gennaio è stato inutile e ha portato solo a due morti e circa novanta feriti; la strada bloccata a Sfax, il governatorato assalito a Jendouba, barricate e lacrimogeni a Tozeur, a Mahdia, a Siliana, a Medenine, nel quartiere Kram di Tunisi; infine un ragazzo che si incendia a Kebili e sembra improvvisamente di essere tornati al 2010.
Sempre recentemente un gruppo di manifestanti infuriati è uscito da un corteo a Feriana, ha circondato un’automobile della polizia, l’ha scossa e danneggiata, linciando poi sul posto l’agente venticinquenne Sufian Bouslimi che si trovava all’interno del veicolo. Con un tasso di disoccupazione pari al 70% Kasserine è una delle regioni più povere della Tunisia che si trova ai piedi del monte Chambi dove si addestrano molti dei jihadisti pronti a partire verso la Libia o la Siria, ovvero i famosi foreign fighters, combattenti preparati a “seguire le orme dei fratelli di Parigi pronti a rovesciare i governi apostati di Tunisia e Marocco”, secondo le esortazioni nell’ultimo audio dell’Isis.
“L’Isis in Libia attende il momento propizio per intervenire in Tunisia e destabilizzarla. Ma lo Stato è forte e resisterà con determinazione”, queste le parole pronunciate in un discorso televisivo alla nazione sulle proteste sociali che agitano il Paese nordafricano; il presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi accusa le forze interne ed esterne e mette in guardia dalla minaccia jihadista che attende alle frontiere per approfittare della situazione.
Anche il portavoce del ministero dell’Interno Walid Louiguini aveva avvertito riguardo alle minacce terroristiche di Al Qaida nel Maghreb islamico che potrebbe trarre vantaggio dalla rabbia crescente della popolazione -che chiede lavoro, diritti sociali e lotta alla corruzione- contro l’esecutivo e le forze dell’ordine per infiltrarsi nel Paese, già duramente colpito nel 2015 da attacchi jihadisti al Museo del Bardo e su una spiaggia di Sousse.
Mentre il premier Essid è chiaro nel ritenere “l’ultima ondata di proteste del tutto priva del carattere pacifico” al punto che “lo Stato prenderà tutte le misure necessarie per ristabilire l’ordine nel paese” le rivolte però continuano, come quella del giovane manifestante Hamma Khiari che ha cercato di buttarsi dal tetto del governatorato al grido di “Lavoro! Libertà! Dignità!”.
Il ragazzo è stato fermato in tempo, ma chissà quanti ancora di questi episodi accadranno nel tentativo di assicurarsi il diritto al lavoro.
Silvia Giardinelli