Roma – “Si tratta del miglior noir che ho mai visto”. La chiosa è di Robert De Niro, mentre premiava a Cannes Nicolas Widding Refn, per la regia di Drive. E a dire il vero aveva ragione. Drive, è uno dei migliori noir degli ultimi anni. Perfetto in tutti i suoi aspetti, teso, violento e romantico come ce ne sono pochi in giro. Tutto è assoluto, i silenzi, l’amore platonico, l’onore e soprattutto il nichilismo, tipico dei film europei degli anni ’70. Ed il suo protagonista, un eccezionale Ryan Gosling, rappresenta in toto il tipo di eroe che sarebbe piaciuto a Sergio Leone. Uno solitario uomo macchina senza un nome e senza un passato, stuntman per il cinema di giorno e cronometrico driver per rapine di notte. Un vero professionista con un grande senso etico dell’onore. Che nel suo codice è quello di difendere a tutti i costi la sua vicina di casa di cui si è innamorato platonicamente, moglie di un pregiudicato ucciso dopo una rapina andata a male.
“Drive ha molti stilemi tipici del cinema europeo, ma con quel pizzico di follia urbana tipica dei film americani”. Confessa Refn, danese di origine ma americano di adozione, spiegando che il suo cinema è il frutto delle due sue due anime. “Sono cresciuto con due genitori Hippie, molto radicali in fatto di violenza.” continua il regista considerato uno dei più amati al mondo, fattosi da solo con un pugno di film (la serie di The Pusher e Bronson, storia vera di criminalità e boxe, mai distribuita in Italia), “Perciò i miei mi facevano vedere solo film europei non violenti, perché secondo loro i film americani erano fascisti. Ma dentro di me stava crescendo un anima dark che poi ho riportato nei miei film”. Ed infatti Drive, mette in mostra delle situazioni estreme che sembrano un calibrato mix tra l’autorialità europea e l’azione americana. Dove la violenza fa da contraltare all’illusione di un amore senza complicazioni. “Ho volutamente diviso il film in due parti distinte, accentuando l’emotività della prima parte con la seconda, perché sono convinto che più il cinema è violento, più crei emozione”.
Il film ricorda un po’ il samurai di Melville, è d’accordo?
Effettivamente sono un grande ammiratore di Melville, ma non mi sono ispirato a lui per questo film. Avevo piuttosto idea di riproporre la mitologia americana dell’eroe solitario, come quelli di Sergio Leone e Melville. Personaggi assoluti, silenziosi, letali, ma dotati di un forse senso di nichilismo che gli spinge a fare quello che fanno. E questo non è assolutamente americano. Gli eroi restano eroi anche quando perdono la vita…
In Drive la violenza è il collante di tutta la storia...
Serve a definire l’assolutismo della vicenda. Anche qui l’ispirazione viene da Leone, ma anche da Dario Argento dei primi film. Nessuno come il cinema italiano è riuscito a portare la violenza al cinema, perché non è pornografica, ma è essenziale per la narrazione. Il sangue è un plus valore ad una pellicola. In Drive volevo che la violenza fosse presente per definire i destini di tutti i personaggi. Anche i silenzi contengono della violenza intrinseca. Ma da parte mia non sono un violento e penso che se mi trovassi in una situazione del genere, una rissa ad esempio, ne potrei morire. Non saprei proprio come difendermi.
Lei ha detto che l’arte è un atto di violenza. Cosa voleva dire?
In certe storie la violenza è tutto. Ma non è solo quella del sangue. L’arte, quando è fatta bene, entra di prepotenza nell’immaginario collettivo. Il driver del film è un artista della guida e lo fa come senza sbavature, come un pittore mette dei colori su una tela. Inoltre sa anche fin dove si può spingere. Solo lui può cambiare le regole del gioco. E lo fa fino alla fine.
A chi si è ispirato per Drive?
Anche qui la “mitologia” europea è importante. Sembra un’assurdità, ma mi sono ispirato ai fratelli Grimm. L’idea mi è venuta raccontando le fiabe a mia figlia. Le loro storie iniziano con molta purezza, poi via via che il racconto prosegue, la storia i fa cupa, violenta. E la violenza è un motore, un linguaggio forte, dove però alla fine vince l’innocenza.
Il suo cinema è considerato estremo. Condivide questo aspetto?
Più un film è estremo, più è emotivo. In Drive, ma anche nella serie Pusher, tutto è portato al parossismo. Nulla è lasciato al caso. Mi considero un regista feticista. Quello che voglio vedere sullo schermo lo metto nei miei film.
Cosa è cambiato dopo il premio a Cannes?
Già essere stato selezionato è stata una grande emozione, ma vincere un premio per la miglior regia è una cosa che fa girare la testa. Ma oltre lo stordimento e l’esaltazione che esso comporta, nei giorni seguenti ho fatto come sempre: ho dato da magiare a mia figlia e andare al supermercato. L’importante non montarsi la testa. Solo in questo modo si riesce ad avere i piedi per terra e continuare a lavorare al meglio.
Lei ha citato Dario Argento, come mai?
Per le soluzioni che è riuscito a dare ai suoi film. Lui è stato fondamentale per capire come saper adoperare le luci, le inquadrature e la musica per creare pathos e tensione. Anche l’essenzialità dei suoi film è stata importante. A bene vedere, allora Drive è un vero film italiano…
di Roberto Leggio