A portarmi Mike in salotto furono due operai di una grossa catena di elettrodomestici con braccia possenti, respiro affannato e movimenti accurati. Consegnavano la tv di famiglia nuova. Pesantissima: erano quintali di transistor di un’elettronica che mirava ancora all’ingombro per darsi un tono. Il vecchio televisore era morto all’improvviso. Poco male, perché non lo guardavo mai. Era un Phonola in finto legno troppo brutto per essere design.
Un paio di led luminosi, un telecomando multifunzione fiammante, e tutto cambiò. Passai tre giorni a studiare il nuovo Sony Trinitron da 28 pollici: cambiavo i canali, alzavo e abbassavo il volume, titillavo un tasto che faceva apparire sullo schermo un piccolo sole. Il brightness: adesso lo so.
Quelli erano i miei anni ottanta. Gli anni in cui vidi per la prima volta Mike Bongiorno. Nel canale numero cinque, quello col serpente in sovraimpressione. Mio nonno diceva di lui che era una brava persona. Mia nonna che era una bravo presentatore: entrambi lo guardavano. Con la stessa devozione dei santini in vista sul comò della loro stanza da letto.
Umberto Eco invece, dal canto suo, lo aveva già definito un everyman. In un saggio scritto vent’anni prima, tempi di storia Rai. Io non conoscevo Umberto Eco, non sapevo cos’era la Rai e prendevo per buono tutto ciò che mi dicevano i nonni. Mi assoggettavo al principio di una nuova sovranità. Quella di un uomo venuto dall’America: padrone del mio salotto e della televisione, brava persona e bravo conduttore. Verità assolute, ma non capivo ancora perché. Furono i tardi pomeriggi di una “Ruota della Fortuna” a convincermi definitivamente: Mike divenne il mio uomo delle stelle. Quando finivo i compiti.
Gustavo le lotte dei concorrenti e mi rilassavo, aspettando con ansia il momento della televendita. Quando cioè il mio conduttore saliva in cattedra con la più pura delle persuasioni: fatta di retorica spicciola ma dettagliatissima, e di consonanti aspre, quasi sempre onomatopeiche.
Non potrò mai dimenticare la salivazione da cane pavloviano che mi provocava mentre descriveva zuppe Knorr e prosciutti Rovagnati, con gargarismi promozionali e movimenti eloquenti di una cartellina che leggeva e recitava nel miglior modo possibile. Tutta roba che si ripeteva con suggestione ancora maggiore, quando sullo schermo sfilavano le modelle della pellicceria Annabella di Pavia. Mike leggeva, ancora una volta. Gutturale con le consonanti, appassionato nei movimenti come sempre, ma poetico come non mai negli ascessi di un gergo tecnico da sofisticato pellicciaio transalpino. Visone si, ma non solo. Era soprattutto, come diceva lui, un taglio demi-boeuf.
Del resto, se avevo voglia di toccare con mano ciò che in un diverso contesto non avrei nemmeno degnato di uno sguardo, il merito era solo di Mike e del suo perfetto idioletto francese. Avrebbe potuto vendermi un tre quarti di ermellino rat-mousquè come albero di natale e lo avrei acquistato senza battere ciglio, se solo avessi avuto i soldi. Ne sono certo.
Cionondimeno: attenzione a non fraintendermi. Mike non fu solo ciò che la mia memoria maniacale qui racconta. Né un bravo conduttore. Né un ineguagliabile televenditore. Fu, più di tutto questo, un esportatore di estetica televisiva. Quella americana: materialista, coatta, superficiale. A tutta birra con telequiz, televendite e propagande commerciali.
Fu grazie a lui che l’italico catodo decise di arricchirsi di attributi statunitensi, in un passaggio di anni che fece epoca. La storia della tv, per far questo, non avrebbe potuto scegliere miglior artefice: un newyorkese di nascita, ma dal sangue italico. Fu prima il turno antesignano della Rai, poi, a rodaggio già bello che ultimato, del biscione Fininvest. Una tv commerciale portata da Mike a vero compimento ontologico.
Anni di storia che passano, televisiva e anagrafica. Poi il 2009 e un nuovo Mike ancora. Che a ottantaquattro anni, svincolato da un Berlusconi sempre troppo poco romantico, compie una nuova rivoluzione. Un nuovo futurismo. Lui, uomo del catodo per eccellenza, monumento del classicismo televisivo, va sul satellite. Quello di Murdoch. E non si accontenta: sfruttando l’accattivante alone vintage degli anni ’70, decide di condurre qui il restyling del suo famosissimo “Rischiatutto”. Ben dodici puntate dello storico quiz, secondo per importanza solo a “Lascia o raddoppia.”
Una tv tradizionale, quasi mitica, balza così verso il futuro della sua stessa evoluzione. Se saranno cortocircuiti, lo vedremo a breve. Ma intanto il mio uomo delle stelle continua a stupire, rinnovando il media in cui ha vissuto una vita intera e aspettando tutti. In un cielo nuovo: Sky.
P.R.
(Nella foto Mike Bongiorno)