Cinzia Bergaglio è quella donna che ti aspetti quando sai che ha condotto un’azienda vitivinicola per almeno venti anni, insieme a suo marito Massimo e a due bambini piccoli a cui dover badare. Forte, concreta, determinata: quando si ha a che fare con la terra, o l’approccio è diretto oppure non si può avere la forza di continuare. Il territorio di certo non ha aiutato. Da alcuni anni la provincia di Alessandria, in particolare il paese di Gavi, si è conquistata un posto privilegiato tra i vini di alto rango, per la qualità dei suoi bianchi. Ed è ovvio che la competizione tra produttori ha alzato l’asticella. Oggi la Cinzia Bergaglio Vini si è trasformata: il titolare è diventato il figlio Mattia, lo stesso che è cresciuto tra i vigneti ed ha respirato l’odore del mosto, mentre la sorella Michela ha preferito trovarsi una sua strada con la laurea in biotecnologie avanzate. Abbiamo parlato con due generazioni di imprenditori, Cinzia e Mattia, per vedere più da vicino l’evoluzione di una visione aziendale iniziata nei primi anni 2000.
Ma come hai fatto a tenere tutto insieme, famiglia e lavoro?
Mattia è del 1993 e Michela del 1999. Nel 2002 uno aveva 9 anni e l’altra 3. Loro hanno contributo nell’aver avuto tanta pazienza, nel non avere orario nel mangiare, nel non trovare la minestra pronta o scotta. A 10 anni sapevano far funzionare la lavatrice, l’asciugatrice, avviare il Bimbi, impastare la pizza: ognuno faceva il suo a seconda del grado di possibilità. Tanta sopravvivenza, perché non si può essere ovunque. Mattia è entrato in azienda negli ultimi anni. C’è stato un grande cambiamento perché abbiamo dovuto capire cosa voleva fare, mentre Michela ha avuto subito le idee molto più chiare: laurearsi con la magistrale in biotecnologie avanzate. Oggi Mattia è inserito ed è il titolare e si sente l’azienda sua. Una grande soddisfazione per noi sentirlo così attaccato all’attività, come se fosse nel suo dna. Comunque, il passaggio di azienda da noi genitori a nostro figlio è stato davvero complicato: penso che se avessimo venduto sarebbe stato più facile.
Partiamo da quel 2002, come siete nati?
Da un malcontento lavorativo di mio marito, a cui si agganciava la volontà di mia mamma di ottenere la pensione anticipata tramite finanziamento a fondo perduto intestando a me, figlia subentrante, l’azienda. I miei genitori producevano e vendevano vino sfuso ad altre aziende imbottigliatrici, per decisione di mio papà che non ha mai voluto imbottigliare. Mio marito Massimo ed io abbiamo pensato che avremmo potuto pensarci noi. Il Gavi in quel momento non era così quotato e la bottiglia ti poteva permettere di arrivare sul mercato con una linea di vendita e con il tuo prezzo. In pratica avevamo varie possibilità: si poteva arrivare all’introito dalla vendita dell’uva, del vino sfuso o della bottiglia. Inoltre nel 2002 è piovuto tantissimo e, invece di rimandare l’apertura all’anno successivo, abbiamo deciso di cominciare lo stesso, puntando in quella parte di terreno dove per noi si poteva avere la migliore qualità dell’uva, con un vino che arrivava ad 11,8% di gradazione. Teniamo conto anche che il 2003 è stata un’annata di grande calore, tanto che la prima vendemmia di settembre ha portato un’uva squilibrata, già appassita sulla pianta. Quindi la previsione era di vendere un’annata difficile con quella successiva non ottimale: sono stati momenti non facili. Dal 2004 al 2012, invece, sono state annate bellissime, quasi una sorta di compensazione. La grande svolta è avvenuta quando abbiamo incontrato un distributore inglese molto importante che si è innamorato del nostro vino Gavi La Fornace (che prende il nome dalla zona n.d.r). Dà lì abbiamo iniziato ad evolverci con un nostro zoccolo duro di affezionati. E siamo arrivati nel 2025 con delle belle onorificenze, dei premi: per esempio il nostro vino é entrato nella guida dell’Espresso, arrivato alla selezione dei tre bicchieri, presente sulla guida vini d’Italia! I nostri distributori della Rep. Ceca lo portano alle loro premiazioni ottenendo medaglia d’argento La Fornace e primo premio al Grifone delle roveri con la medaglia d’oro! Da questi risultati è nata una sicurezza economica invidiabile, che ci ha permesso di affrontare il lavoro con una serenità interiore e con meno apprensione. Ed infatti siamo arrivati al metodo classico, alle bollicine, alle degustazioni in cantina.
Mattia: Il mio inserimento è quello di continuare una attività importante e di portare innovazione, visto che ho modo di interfacciarmi con colleghi più giovani. Ma siamo una famiglia molto unita che va di pari passo in azienda. Che vedo bene nel futuro, se nel territorio di Gavi saremo tutti uniti. Confido in un miglioramento, perché su questo tema in molti stiamo lavorando.
Come azienda siete inseriti in un territorio vocato alla produzione del vino, in particolare Gavi che rappresenta un’eccellenza del Piemonte. Che tipo di vino producete?
Il vino Docg (Denominazione di origine controllata e garantita n.d.r.) del comune di Gavi, addirittura frazione di Rovereto. Se volessimo lo potremmo paragonare ad un crou francese (termine che indica un particolare vigneto che è cresciuto in una determinata zona e dal quale si ottiene un vino particolarmente eccellente n.d.r.). I nostri vigneti sono sia a Tassarolo che Rovereto di Gavi. Il Gavi Docg è un vitigno cortese che nella zona comprende undici comuni dove il Cortese ha la sua massima espressione. Il nostro vino Modesto che porta il nome di mio papà, etichettato nel 2024, è stato due anni nelle sue fecce ed è un Gavi atto all’invecchiamento. Rimanere due anni nelle fecce lo ammorbidisce: il profumo ingentilisce la sua acidità, caratteristica principale del Gavi. Mentre La Fornace, il nostro Gavi di Tassarolo, ha un profumo fruttato, fresco, floreale. Accompagna dall’aperitivo al pranzo, dalla bicchierata nel pomeriggio alla cena: va benissimo sempre. Invece Il Grifone è il vino importante perché subisce il batonage (tecnica tradizionale impiegata durante la fermentazione o l’affinamento dei vini bianchi in botte n.d.r) sui suoi lieviti e sulle sue fecce e gli conferisce una persistenza in bocca molto più pronunciata rispetto a La Fornace.
Per raggiungere la qualità avete adottato una serie di precauzioni e procedure attente all’ambiente e alla pigiatura.
Abbiamo sempre avuta un’attenzione mirata verso la potatura. Il vitigno del Cortese è molto prolifico. Oggi pratichiamo una potatura che ha dai sette agli otto germogli, più due dello sperone. E facciamo anche la vendemmia verde (eliminazione dei grappoli in eccesso prima della maturazione n.d.r) con otto, massimo dieci grappoli per pianta. Si pratica a luglio contando più o meno i grappoli e si eliminano quelli in eccesso, prediligendo quelli che sono aggrovigliati e che non permettono la circolazione dell’aria all’interno della pianta. Perché è fondamentale la brezza che favorisce l’aria ed asciuga la rugiada mattutina. Sul fronte dell’attenzione all’ambiente mio figlio Mattia ha eliminato immediatamente l’uso dei diserbanti passando al diserbo meccanico che varia a seconda dei cambiamenti climatici. Abbiamo provato anche la tecnica del sovescio, ma abbiamo capito che l’inerbimento che avremmo trinciato, funge allo stesso scopo.
Mattia: Lavorare meno il terreno, a livello di consumi, va ad impattare in maniera minore sul nostro pianeta. In questo senso in cantiere ci sono diversi progetti, come l’installazione di pannelli fotovoltaici per fare in modo che tutte le attrezzature da cantina possano funzionare ad energia solare. E poi il recupero degli scarti ed il possibile utilizzo di acque di lavaggio. Sono convinto che una cooperazione tra comuni possa portare ad ottimi risultati perché si possono convogliare acque di scarto di lavaggio su dei sistemi di filtraggio unici ed utilizzare quell’acqua immettendola in circolo più pulita.
Che cos’è invece, la pigiatura dolce?
Vuol dire che l’uva non ha quelle pressature forti atte a portare a casa il mosto. La nostra pigiatura è soffice, addirittura mio figlio ha diviso questa operazione in due parti. Quando l’uva viene portata a casa, viene rovesciata nella tramoggia (grande raccoglitore dell’uva n.d.r.) per essere pressata: ma lo stesso peso dell’uva fa cadere il mosto! Il risultato è il primo fiore che viene messo dentro una botte, a parte. La pressatura soffice delle uve a bacca bianca permette di raccogliere il primo liquido, il cosiddetto vino fiore, il più nobile.
Avete scelto di coltivare i vostri vitigni su un terreno calcareo, argilloso, considerato all’inizio un problema e poi tramutato in opportunità.
Mio padre si è interessato ad una zona e ad un terreno in particolare, dove tutti gli altri vedevano erbacce ed immondizia. Prima che tutto diventasse realtà, passeggiando con mia madre, già immaginava i vigneti e la casa. Quando abbiamo piantato il nostro vigneto, quante pietre sono emerse! In realtà la pietra si è poi rivelata fondamentale perché ha dato la mineralità al vino. Mentre l’altra zona in cui coltiviamo è più tufacea e quindi dà vita ad altri profumi. Queste due produzioni così diverse avevano bisogno di un packaging che ci identificasse e, per fortuna, abbiamo avuto la possibilità di incontrare Tamara Repetto artista di livello mondiale. La quale ha saputo mettere insieme la nostra storia, attraverso la pietra ed il reticolato che rappresenta anche il diamante, cioè la preziosità del prodotto. La sua abilità è stata quella di inserire la nostra fatica e la nostra passione nel logo, simboleggiato dalla pietra.
Nel vostro lavoro, dunque, interviene anche l’attenzione per cogliere quello che accade, come un’evoluzione di una eventuale modalità diversa di produzione del vino…
Certo. C’è sempre qualcosa che si può migliorare. Ad esempio, il nostro metodo classico oggi lo vendemmiamo in cassette. Significa che l’uva viene vendemmiata in cassette di plastica, vengono raccolte e accatastate in modo che non si schiacci l’acino, portate presso la cantina e vuotare direttamente all’interno della pressa, prima procedevamo con lo stesso processo del Gavi. Cambiando gli abbiamo regalato un profumo diverso, migliorativo.
Voi producete vino per ogni abbinamento culinario: dall’antipasto al dessert. C’è anche un Vermut senza l’acca…
Il Vermut nasce nel 2020 con il Covid, con l’intento di salvare quel vino rimasto in eccedenza in altre aziende. Noi ci siamo avvicinati al Vermut non per questo motivo, ma perché siamo da sempre appassionati. Nel momento in cui ci hanno proposto di fare con il nostro Cortese il Vermut, abbiamo accolto la novità con grande entusiasmo.
Sono rimasta molto colpita dalle vostre degustazioni, che sono anche racconto, storia, narrazione.
Di solito partiamo dal vigneto ed è lì che la gente si incuriosisce. Le nostre degustazioni possono durare due ore, ma anche quattro: dipende dalla quantità di domande che la gente formula. Siccome sono una persona che ama il cliente ed ha piacere ad informarlo, mi dilungo molto. Mia figlia quando vedeva che la permanenza in vigna durava più del previsto, mi alzava da lontano un cartello con scritto stop!
Il consumatore oggi è preparato, conosce e si informa, ma è anche curioso di capire quando si trova faccia a faccia con l’uva, come diventa vino.
Certo. Cose che per noi risultano routinarie, per la gente si traducono in esperienza. Non a caso l’obiettivo dell’enoturismo è quello di vendere emozioni.
Mattia: Anche perché le informazioni sono più accessibili e dunque la gente è più preparata.
Il cambiamento climatico rappresenta per voi una preoccupazione?
Sicuramente, visto che è l’unico datore di lavoro al quale non si può chiedere nulla. Forse potremo prevedere un innesto a partire dalle barbatelle, cioè dalla vite piccola (talea, margotta o propaggine della vite che ha emesso la “barba”, ossia le radici, e che viene utilizzata nell’impianto dei vigneti n.d.r.). Ci sono zone dove è possibile coltivare la barbatella a piede franco. Nella nostra zona questo non è possibile perché la pianta sarebbe soggetta alla filossera. Questo tipo di problema è stato risolto con un innesto con vite americana. Chissà che nel futuro non esca fuori un tipo di innesto più resistente alla siccità o agli agenti atmosferici.
Chi sono i vostri clienti?
Persone della fascia d’età dai 35 ai 55 anni. Ma iniziano ad affacciarsi i giovani ed anche i bambini attraverso le attività didattiche come la vendemmia. Un momento nel quale il turista si lascia andare. Il pigiare l’uva con i piedi, che noi normalmente non utilizziamo come procedura, è uno dei momenti più significativi: è imprescindibile. Poi, una volta finito il divertimento, spieghiamo cosa accade veramente in azienda. Si entra in cantina, si degustano dai tre ai cinque vini con abbinamenti di prodotti locali. Due volte l’anno riusciamo anche ad organizzare l’evento Clandestino legato al Vermut. Una drink list dove uniamo il vermut con il metodo classico in cocktail come il Negroni o l’Americano, ma anche Sia Santificato il Vermut! Le persone prenotano un tavolo all’interno della nostra azienda, si siedono accanto a sconosciuti come ad amici e partecipano a delle serate di allegria e complicità. Per noi si tratta di far passare un messaggio slegato alla sola produzione del vino, con l’intenzione di far vedere il nostro territorio da un altro punto di vista. E funziona, visto che sono le stesse persone che dopo qualche mese, ricordandosi della bella serata trascorsa, comprano il vino che le ha fatte emozionare.
Cosa pensate del vino dealcolato?
Che non è vino! Non si può chiamare vino una bevanda che non ha al suo interno una percentuale di alcool. Comunque, credo che si tratti di un prodotto a cui negli anni arriveremo: visto che non si fa che parlare che il vino fa male, il vino invecchia…Secondo me dovremmo essere solo più attenti al bere.
Mattia: Se devo far sopravvivere l’azienda, certamente me lo faccio andare bene il vino dealcolato. Ma se devo pensare in astratto, dico che è una soluzione insensata. Se c’è un’attenzione a voler bere del vino senza alcool, mi aspetto che il mondo abbia una percezione di salute molto alta. Al momento i procedimenti per produrre vino dealcolato sono complessi e costosi. Soprattutto consumano tanta energia e quindi mi chiedo: il compromesso dov’è? Comunque, se le persone vogliono bere vino senza alcool pur di bere, allora dico molto schiettamente che preferisco coltivare dei cavolfiori!
Donal Cantonetti