A 500 anni dalla morte, il mondo intero celebra il grande maestro di Urbino, che con la sua grazia ha rivoluzionato e condizionato per sempre l’ispirazione artistica a venire
Una meteora è un lampo fulmineo di luce che squarcia il buio della notte, manifestazione fuggevole eppure suggestiva**,** metafora efficace di sfolgorante incanto destinato a durare il tempo di un bagliore e poi niente più. La bellezza, nella sua accezione più elementare, è riconducibile forse proprio a questo miscuglio di meraviglia e caducità, di straordinario che si consuma e scompare, restando però impigliato nelle maglie del ricordo e della sensibilità individuale e collettiva; la grande scommessa dell’uomo di ogni tempo, di fronte a tale precarietà, consiste allora proprio nel coraggioso e indomito tentativo di fissare il bello nella sua essenza più autentica e sincera, per sempre. La mano dell’artista è depositaria della missione di acciuffare l’eterno, di tentare di fissarlo in forme e significati. L’arte è d’altro canto elisir di lunga vita, è l’antidoto più potente e dolce contro la transitorietà: l’artista per vocazione trasfigura la realtà per proseguirla elevandola coi più alti intenti e Raffaello Sanzio, il sommo Maestro del Rinascimento, è stato colui il quale, più di ogni altro, grazie al suo tratto divino e al suo talento eccezionale, ha saputo essere capace di compenetrare i misteri del creato e vincere il ricatto del tempo con la sola forza della sua pittura. Scompare prematuramente, a soli 37 anni, all’apice della sua vita e della sua carriera: si spegne all’improvviso la sua fiamma, ma il maestro non è meteora, Sanzio è squarcio nello spazio-tempo.
Accadeva 500 anni fa, mentre la Città Eterna era alle prese con le celebrazioni ecclesiastiche del Venerdì Santo: era il 6 aprile del 1620 e il pittore cedeva alla malattia che lo aveva prostrato per 15 giorni, causata, a detta del biografo Vasari, dai suoi appassionati “eccessi amorosi”. Dolore e sbigottimento prostrano la città di Roma. Le similitudini cristologiche del trapasso di Raffaello Sanzio non fanno che rafforzare un’opinione già consolidata presso i suoi contemporanei: all’apogeo del successo, Sanzio è infatti a buona ragione considerato “divino” e capace di realizzare con grazia e pienezza la sintesi perfetta dell’armonia pittorica e architettonica, sopravanzando la natura stessa. Il Principe dei Pittori, nato a Urbino nel 1483, figlio d’arte e allievo del Perugino, una carriera sfolgorante che lo porta da Urbino a Perugia, a Firenze e a Roma, conosce in vita un’ascesa gloriosa che lo conduce ad essere l’uomo simbolo del Rinascimento. Il mondo rappresentato da Raffaello, anima gentile, spirito acuto in grado di conquistare i personaggi più insigni del suo tempo, è una realtà sublimata, scarnificata dalle sue implicazioni più terrene, come le sue meravigliose, ieratiche Madonne, per assurgere a una dimensione trascendente: nella lotta atavica tra uomo e natura, Sanzio segna un punto fondamentale. La sua opera si colloca così quale pietra miliare per chi verrà dopo di lui, alfabeto e grammatica per il linguaggio artistico successivo, tanto da far scaturire una tendenza di pittura alla sua maniera. Raffaello Sanzio è consacrato Messia della bellezza, genio angelico la cui potenza creativa è ben sintetizzata dalle parole scelte dall’umanista Pietro Bembo per l’epigrafe in latino incisa sulla sua tomba al Pantheon, luogo sacro in cui il pittore stesso aveva chiesto di essere sepolto: “Qui sta quel Raffaello, mentre era vivo il quale, la gran madre delle cose temette d’esser vinta e, mentre moriva, di morire”.
Nell’epica della vita, breve quanto straordinaria, di Raffaello Sanzio, costellata di avventure amorose e di eccessi, spicca il mito di un amore che non appassisce, che trafigge il tempo e la storia: guardando uno dei dipinti più celebri dell’urbinate, conosciuto come “La Fornarina”, infatti, ancora oggi è impossibile restare imperturbabili di fronte alla profondità sensuale degli occhi neri che ci guardano dal ritratto. Sono gli occhi di Margherita Luti, o Luzzi, figlia di un fornaio di Trastevere, musa di Raffaello, amore eccelso, avvolto nelle brume della leggenda ma nonostante questo sempre potente ed evocativo. Sanzio la vide affacciarsi da una finestra del civico 20 di via Dorotea e se ne innamorò perdutamente, al punto da dedicarle subito dei versi, da volerla sempre al suo fianco. Il volto di Margherita è una irresistibile ossessione, che ritorna più volte nelle opere della maturità dell’artista. Anche nell’ultima tela, la Trasfigurazione, ritorna il volto dell’amata, per la quale l’artista rimanda più volte le nozze con la sua promessa sposa Maria Bibbiena, nipote del potente cardinale. La Fornarina del dipinto è senz’altro emblema di una bellezza aggraziata nelle forme e nelle pose, manifesto dell’ideale artistico rinascimentale declinato dalla sensibilità rivoluzionaria ed estetizzante del Sanzio: al braccio sinistro reca un bracciale blu e oro, su cui compare la scritta “Raphael Urbinas”, firma dell’artista e simbolo di un vincolo amoroso inestricabile. Pare che in origine la Fornarina recasse al dito anche un anello nuziale, poi cancellato dagli allievi di Raffaello. Che sia vero o meno, sta di fatto che, in seguito all’improvvisa morte di lui, la bellissima Margherita decise di chiudersi al mondo, rifugiandosi nel convento di Sant’Apollonia a Trastevere. Per tutto il 2020, sulla tomba di Raffaello al Pantheon verrà deposta una rosa rossa: i cuori più romantici potranno immaginarla come l’omaggio postumo della sua amata.
Elisabetta Pasca