Enrico Bartolini è, numeri e riconoscimenti alla mano, il miglior chef d’Italia. Grazie al ristorante presso il MUDEC di Milano, e al Glam di Venezia, il 2019 è stato l’anno della definitiva consacrazione del cuoco toscano
Chef Bartolini scandisce bene ogni parola, quasi selezionando attentamente i suoi pensieri per sottolineare al meglio quella che è la sua filosofia non solo in cucina. Parla lentamente e attentamente colui che, riconoscimenti alla mano, è lo chef più premiato d’Italia. Una selezione accurata di ogni espressione che compone le sue frasi, così come scrupolosa è la scelta degli ingredienti protagonisti dei suoi piatti.
Enrico Bartolini
Nel corso della sua carriera lo chef ha fatto incetta di “trofei” e riconoscimenti , ma la vera notizia è che lo chef toscano è riuscito a conquistarsi tutto questo successo ad appena 41 anni. Nato nel 1979 a Pescia, provincia di Pistoia, in passato si è definito il “Pirlo dei fornelli”. Ciò che l’accomuna al famoso ex centrocampista è la capacità di organizzare e organizzarsi in mezzo ai fornelli della cucina, il suo campo da gioco, uscendone sempre con piatti dalla grandissima qualità e ricercatezza.
Fil rouge del suo percorso professionale la costante ricerca dei principi di “qualità” del cibo e “fiducia” nelle persone con cui lavora, un team che condivide i suoi stessi valori umani.
Enrico Bartolini nella sua cucina ama pescare dal passato prima di sottoporre i piatti ad una rivisitazione moderna. “Contemporary Classic” è, infatti, la sua filosofia, una chiave di lettura che esalta il “classico contemporaneo”, titolo anche del suo libro uscito nel 2017. “Voglio esprimere contemporaneità” – dice – “il piacere di stare a tavola, l’essenzialità nei piatti con la concentrazione dei sapori ricavati da pochi ingredienti”.
Abbiamo intervistato lo chef che, con la calma tipica dei forti, ci ha aperto le porte della sua cucina e del suo pensiero. Ecco cosa ci ha rivelato.
Il 2019 possiamo considerarlo il tuo anno di grazia. Come l’hai vissuto?
Me ne devo ancora rendere conto. In particolar modo dall’annuncio della terza stella, cui va aggiunta la conferma delle Tre Forchette, c’è stata una valanga di richieste di ogni genere, soprattutto di prenotazioni. Questo a conferma che qualcosa di buono durante questi anni è stato fatto e che il nuovo obiettivo da porsi non può essere che confermare e consolidare questo riconoscimento anche in futuro.
Dai tempi di Marchesi non si vedeva la terza stella a Milano. Che effetto ti fa essere accostato al nome di un grande maestro come lui?
Non me ne capacito ancora perché è una cosa troppo grande da pensare. Marchesi è stata una persona speciale che ha aperto una strada in un momento in cui in Italia non c’era l’attenzione che c’è oggi nei confronti della gastronomia. A Milano da più di 25 anni non c’era un tristellato e questo era un peccato, ma già da giovane sentivo questa “missione”, che Milano dovesse avere un tre stelle ed esserci come protagonista è un onore pazzesco. Come ho detto alla presentazione della Guida è come vincere un oro alle Olimpiadi, poi averlo ricevuto nella città di Milano ci mette al centro di un’attenzione ancor più straordinaria.
Il ristorante al Mudec di Milano
È un momento particolare per Milano. Dall’Expo in avanti c’è stato grande fermento e l’assegnazione delle Olimpiadi invernali non ha fatto altro che accentuare questa attenzione …
Devo dire che il post Expo è stato il meglio che la città si sarebbe potuta augurare. Prima di quell’evento ricordo molta diffidenza, ma questo perché non si dà mai fiducia alle iniziative importanti. L’Expo ha acceso una luce straordinaria sulla città e ne stiamo ancora riscuotendo il successo. Milano dunque è viva e l’assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 ne è la conferma indiscussa: siamo di nuovo sotto i riflettori internazionali e questo è fonte di benessere per tutti. Sono contento di poter far parte di un simile momento storico.
Qual è secondo te il plus che ti ha garantito in particolar modo i riconoscimenti ottenuti nel 2019?
Sottolineo che più noi cuochi lavoriamo e più siamo concentrati e a disposizione degli ospiti, più le cose riescono e vengono percepite al meglio. Ai miei occhi è apparso evidente un miglioramento a livello di sala, con il consolidamento di alcuni passaggi che danno maggior confort agli ospiti e l’approfondimento culturale dell’idea che c’è nel menù.Ho sempre detto che un ristorante per piacere deve offrire una grande location e un grande servizio, perché la cucina deve essere straordinaria sempre, ma a volte soprattutto le famiglie prediligono questi due aspetti. Ultimamente ci siamo concentrati molto e questo si fa se ci sono le figure umane adatte a questo tipo di lavoro, perché è importante che il personale di cucina e di sala diventino complici e coesi. Il ristorante non deve distinguere questi due ambienti, ma riunire tutto sotto un obiettivo comune.
Voi chef siete ormai diventati dei personaggi con una forte eco mediatica e un forte seguito anche al di fuori del mondo della cucina. Quali sono i messaggi più importanti che Enrico Bartolini vuole trasmettere alla gente?
Quando ho iniziato a fare questo mestiere puntavo a far bene il cuoco in una cucina dove, tra tante persone, non sarei stato io lo chef. Con la scoperta del fine dining sono diventato sempre più ambizioso e questo mi ha stimolato sempre di più. Ora il nostro ruolo in effetti è sotto i riflettori più che mai e il messaggio che credo sia importante trasmettere è quello legato all’importanza della formazione, soprattutto nel periodo post scolastico. Spero che i giovani che entrano nel mondo del lavoro possano studiare le esperienze di chi è considerato più bravo per assumere consapevolezza e costruirsi il percorso migliore possibile. È così che cresce il livello culturale, ma bisogna avere pazienza e la giusta ambizione.
Si parla molto e in maniera piuttosto gelosa di identità di cucina italiana, ma sappiamo che questa si è formata nei secoli attraverso molte contaminazioni. Oggi sembra esserci una forte influenza, specie sui clienti, di proposte orientali: secondo te dobbiamo salvaguardare la nostra identità oppure c’è spazio per altre contaminazioni?
Il fatto che ci siano culture diverse che ospitiamo, e viceversa, lo trovo un piacevole scambio umano prima che gastronomico. Che l’identità dei luoghi debba essere rispettata è indubbio, ma questo non significa che un italiano non possa cucinare a New York o che un cinese non possa cucinare a Firenze. È bello che ci siano le opportunità, basta che alla base ci sia la buona qualità, una storia da raccontare che possa far funzionare il sistema gastronomia (dal piccolo produttore al piatto finito) nel miglior modo possibile, seguendo un’impronta etica che non può mai mancare. Se invece si vuol consumare il cibo solo per sfizio diventa uno spreco.
Come descriveresti la tua proposta gastronomica all’estero? Hong Kong, Dubai e Abu Dhabi: presenti i piatti della tradizione italiana o ti fai un po’ contaminare da quella del luogo?
Noi italiani quando siamo fuori abbiamo un forte senso di comunità, riconoscibile in quei tratti che ci hanno reso famosi nel mondo a partire dagli anni 80. Guardando dalla prospettiva dell’ospite se si fa una cucina popolare e ben riconoscibile si ha più successo.
Per chiudere, raggiunta la vetta in cosa si può ancora migliorare?
Non uso mai il termine “vetta”, ma ammetto che essendo dei cuochi ci è stato riconosciuto di appartenere a una categoria di eccellenza. È bello potersi sentire un riferimento per qualcun altro o aver dato vita a un ambiente in cui si generano aspettative per chi viene a vivere le nostre esperienze. Dunque sento un po’ il senso di responsabilità e un po’ l’emozione di dover fare al meglio quello che ho sempre sognato di fare. Quindi è bello, assieme a tutto il team, potersi esprimere ai massimi livelli.
Alessandro Creta