Luigi Marcus Greco
Opera prima di Luigi Marcus Greco, giovanissimo autore di una saga familiare sullo sfondo di una Calabria aspra e meravigliosa.
Ammettiamolo: scrivere un romanzo storico, per giunta, di circa 500 pagine, in questi tempi di feroce rapidità, dove è necessario esprimere tutto ciò che si ha da dire in un titolo, per non rischiare l’indifferenza o l’oblio, è un vero atto di coraggio.
Quando incontro Luigi Marcus Greco, però, resto perplesso. Mi trovo di fronte un giovanissimo ragazzo moro, dagli occhi grandi ed espressivi, un modo di fare timido e sfuggente. E mi chiedo: è questo l’eroe letterario che ha deciso di affrontare l’impresa di rinverdire un genere che qualcuno potrebbe considerare quasi in disuso? A meno che, ovviamente, non si voglia narrare per l’ennesima volta qualche saga dinastica reale, con la speranza che Netflix ne faccia una serie Tv…
Ma, già dalle prime battute, mi rendo conto di trovarmi di fronte ad una persona dalla cultura ampia e vivace, un ricercatore appassionato e curioso che ha fatto della storia un’arma per raccontare nientemeno che la sua famiglia.
“Tutte le vite che ho vissuto” dice, già nel titolo, che Luigi parlerà di sé. Ma non lo fa con l’ennesima autobiografia (quella sì, tanto di moda), bensì con una sorta di analisi del DNA. Una ricerca genealogica, alla scoperta di sé, attraverso uomini e donne a lui imparentati, fino all’anno Mille!
Ma come ti è venuto in mente di raccontare la storia della sua famiglia…?
Se ti dovessi dire quando è nata l’idea di questo romanzo, quando si è prodotto l’embrione che ha portato alla scrittura di questa saga familiare, probabilmente ti risponderei che è nato con me. [Esordisce, gelandomi subito con una sicurezza, solo appena tradita da un elegante accento cosentino.] Da quando ero piccolissimo, infatti, mia nonna mi ha iniziato a un bellissimo rituale settimanale: il racconto delle leggendarie storie dei suoi antenati. Combattenti, streghe, attrici, sopravvissuti: tutti i suoi predecessori avevano lasciato un’impronta nel mondo. Anche se vissuti secoli prima, quelle donne e quegli uomini erano straordinariamente moderni.
Luigi… i ragazzi di oggi si annoiano a sentire i nonni raccontare sempre le stesse storie, lo sai?
Ma no! Era così bello sentirla raccontare: c’era chi aveva combattuto con Garibaldi, chi era scampato a calamità naturali, chi aveva vissuto amori impossibili… Il pensiero che quelli fossero anche miei parenti, che scorresse un po’ del loro sangue in me, mi riempiva già da allora d’orgoglio.
Quando hai capito che quelle storie potevano diventare la trama di un romanzo?
Quando l’Alzheimer si è avventato coi suoi artigli su mia nonna e tutte quelle storie hanno rischiato di perdere il loro narratore, è stato chiaro che, da quel momento, sarebbe toccato a qualcun altro prestare la sua voce. E non potevo che essere io.
Certo, però tra i tuoi antenati c’è una donna che ha combattuto con Garibaldi, una strega, un amore omosessuale ai tempi della prima guerra mondiale. Si fa un po’ fatica a pensare che sia tutto vero… [Ho già capito che non mi risponderà sul serio].
Le storie che ho raccontato sono straordinarie per due motivi: sono racconti avvincenti e, soprattutto, sono verosimili. È chiaro che, come in ogni romanzo storico, anche in “Tutte le vite che ho vissuto” ci sono persone, storie, eventi che nascono dalla fantasia dell’autore. La bravura sta nel rendere il lettore incapace di distinguere quali siano. Per questo, quando mi chiedono quanto ci sia di vero nel romanzo, risulto sempre elusivo. [Lo sapevo]
Mi stai rifilando la teoria del vero e del verosimile manzoniani, per caso?
[Ride] Chi legge deve dare per assodato il fatto che, anche quando si trova davanti a una storia romanzata, si trova davanti a una storia possibile. Ricreare il perfetto contesto storico – a volte anche molto lontano dal presente – in cui far muovere, vivere e parlare un personaggio letterario è forse la cosa più difficile in cui mi sono imbattuto. Ho dovuto consultare manuali di storia, registri parrocchiali, documenti d’archivio. E’ stato un lavoro davvero impegnativo.
E’ plausibile immaginare che le storie più antiche siano romanzate, sebbene verosimili e, magari, vicine a fatti realmente accaduti. Però, ce ne sono alcune che raccontano vite che tu hai vissuto in prima persona…
Parli di mia madre, immagino…
Beh, sì. Raccontare la sua vita e, soprattutto, la sua morte, dev’essere stato difficile.
Anche se prima ho confessato che l’idea di questo romanzo mi accompagna da quando ne ho memoria, è innegabile che la morte di mia madre sia stato il punto di partenza, la scintilla che ha dato vita alla sua scrittura. Quello è stato l’evento più doloroso della mia intera esistenza. Forse, per la prima volta, mi sono scoperto indifeso e vulnerabile, incapace di reagire: quel dolore era come una nebbia fittissima, che mi impediva di vedere nitidamente qualunque cosa.
Fammi indovinare, la scrittura ti è venuta in soccorso…
Esattamente. Un bel giorno, ho scoperto che la cura al mio dolore era proprio davanti ai miei occhi, nascosta lì, in quella penna nera. E, riga dopo riga, pagina dopo pagina, mi sono detto che è proprio come affermava Petrarca: «scrivendo, il duol si disacerba». **[**Eccolo lì, il ragazzo poco più che ventenne dallo sguardo sfuggente, che scopre il segreto più antico dei grandi scrittori: la letteratura come risposta al dolore]. Nel mio caso, però, scrivere non bastava a lenire una sofferenza tanto grande. Dovevo non soltanto scrivere, ma scrivere di mia madre. Ripercorrere la sua storia e farla, in un certo senso, tornare in vita grazie ad essa. Per averla accanto a me sempre e per far sì che tutti la conoscessero.
Ora capisco, tu non vuoi soltanto preservare la memoria di racconti fantastici, il tuo è un obiettivo ancora più grande: con la scrittura, è come se li riportassi in vita tutti (soprattutto tua madre).
[Annuisce] In questo modo, le rendo il favore che lei ha fatto a me venticinque anni prima, partorendomi: adesso sono io a metterla al mondo, dandole sulla carta quella vita che, sulla terra, ingiustamente le è stata strappata troppo presto.
La cosa che mi ha più turbato e sorpreso del romanzo è leggere i personaggi raccontare in prima persona della propria morte. E’ evidente che la Morte sia la reale protagonista di tutte le storie…
Raccontare la morte di mia madre mi ha dato la possibilità di concentrarmi sulla Morte e sull’idea del destino, a cui ogni personaggio è condannato, nonostante i suoi tentativi di sfuggirgli o di cambiarlo. E’ come se la vita di ogni personaggio servisse a dare un senso alla sua Morte.
Sei tornato alle radici del realismo del primo Novecento.
[Finalmente lo rivedo sorridere] Qualche mese fa, una persona che amo particolarmente, leggendo il romanzo, ha detto che vi aveva ritrovato un’idea del destino quasi “verghiana”. Questa definizione, mi ha portato a riflettere su quanto sia profondo e radicato questo sentimento del destino che, attraverso la Morte, unisce tutte le storie che ho raccontato, i fili di una straordinaria epopea della Morte.
Un’epopea della Morte… Macabro e affascinante insieme. Per capire la morte, non c’è modo migliore che raccontare la vita. Ma, ancora di più, vale il contrario. Saluto affettuosamente Luigi che mi ha irrimediabilmente conquistato, e vado via con la consapevolezza di aver incontrato un talento genuino. Certo, costatare che un ragazzo tanto giovane abbia già un’idea così chiara del rapporto tra la vita e la morte fa un po’ effetto. Mi consola però sapere che questa precoce esperienza del dolore abbia dato vita ad un romanzo di cui sentiremo sicuramente parlare.
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