All’indomani della scomparsa della mitica direttrice di Vogue Italia, Franca Sozzani, si torna a parlare di moda come ponte simbolico tra le culture. A promuovere l’uguaglianza sulle passerelle di tutto il mondo e lo scambio interculturale, i progetti di African Fashion Gate e il Convegno Mondiale delle Donne della Moda e del Design “La Moda veste la Pace”
L’Africa ha finalmente invaso l’Occidente e l’ha fatto partendo dalle passerelle più importanti del mondo. Non è un fenomeno nuovo, o almeno non così tanto, e il dettaglio africano è una mania che contagia, un’euforia diffusa di ispirazioni, richiami, colori, che si spande a macchia d’olio tra i creativi delle più grandi case di moda dell’Occidente: le treccine così “black” di Valentino, le stampe dipinte a mano di Trussardi, le perline terrose (e terrigne) di Alberta Ferretti, l’affastellata stampa mosaico di Hermès, gli accessori tribali di Luis Vuitton.
Isabel Marant, Issey Miyake, Bottega Veneta, Manila Grace, Gherardini, Kristina Ti, Givenchy (oltre ai già citati Hermès, Trussardi, Valentino, Ferretti e Vuitton) sono solo alcuni tra i mille nomi che nelle scorse stagioni hanno saccheggiato l’immaginario africano in cerca dell’ispirazione giusta, del tocco esotico da dare alle nuove collezioni, della perla di stupore che li salvasse dal banale, dal reiterato, dal de ja vu. E ci sono riusciti in pieno: con loro l’Africa Cenerentola sale in passerella, resa splendente dalle sue “fate madrine”, acclamata dal pubblico occidentale, regina del wax che invade il prêt-à-porter, svincolata finalmente da un campionato di serie B in cui non aveva deciso di giocare.
Se non fosse che l’Africa non è Cenerentola e non ha bisogno della fata madrina per presentarsi al ballo.
La moda africana è un alveare creativo, vivo, brulicante di ispirazione, che trae la sua forza dal territorio (gli artigiani di tutto il continente possiedono abilità e tecniche uniche, tradizionalmente tramandate nelle generazioni) e l’Africa, da mercato, diventa sempre più produttore, in particolare la costa orientale: 37 paesi su 54 sono produttori di cotone e il Kenya e l’Etiopia sono i punti di riferimento dell’industria tessile nel continente.
D’altra parte la grande frequentazione di “Origin Africa”, la fiera del cotone, del tessuto e dell’abbigliamento più grande di tutto il continente, parla chiaro: è sempre più comune che i marchi internazionali reperiscano manufatti africani e nella stessa Etiopia sono stati prodotti anche capi di abbigliamento per alcuni marchi “fast fashion” europei come Primark e H&M.
Cambia la filiera produttiva, e, se in passato erano molti i paesi africani ad importare abiti dall’Occidente, adesso la tendenza sembra invertita, con sempre più designer, non solo africani, che mirano a creare collezioni di abiti completamente made in Africa.
Troppo spesso l’Europa, forse un po’ “dura d’orecchio” data l’età, continua ancora ad incarnarsi nella figura benevola (e stucchevole) della fata madrina e troppo spesso continua a celebrare l’Africa attraverso una visione squisitamente occidentale: l’Africa è tribale, selvaggia, animalier, colorata e chiassosa.
E’ moda “etnica”, in un’accezione che si cristallizza in frange e braccialetti tintinnanti, stampe colorate e perline tribali, a riprendere un immaginario collettivo di tamburi rituali e danze sfrenate, di cacce selvagge e maschere di legno. L’Africa come vezzo esotico, come il tiramisù all’ananas o il profitterol al mango, “un po’ sopra le righe”. L’Africa, in una visione olistica che fonde i suoi contrasti in una sintesi feroce, che però, a differenza di quella hegeliana, di filosofico ha ben poco: banalizza e non complessifica.
E’ un’esaltazione che facilmente cade nello stereotipo, troppo lontana dall’Africa reale, in cui il fermento nato intorno al nuovo stile dei designer africani sta definendo una nuova industria della moda.
L’Africa insomma non svende più i suoi figli e i suoi tesori per specchietti e pezzi di vetro colorato e, se l’ingegnosità e la creatività del continente nero rimane spesso nascosta nell’ombra, c’è chi tenta di portare alla ribalta, o meglio sulle passerelle storiche di Parigi, Milano e New York, un concetto di moda che esalta diversità ed integrazione, in cui l’Africa è centro propulsivo, ma non fine unico. Moda Etica, non Moda Etnica.
Si tratta di African Fashion Gate (AFG), nello statuto un’Associazione No Profit, nei fatti un progetto, un’ispirazione, un lifestyle, una grande visione che sostiene un programma di sviluppo sociale e culturale dell’Africa attraverso la moda e l’arte.
Ideato da Nicola Paparusso (Politologo insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, scrittore, autore e produttore televisivo e cinematografico di format come “Sua Eccellenza Italia – il Gala del Made in Italy”, condotto da Pippo Baudo su Rai International) e patrocinato dal Ministero della Cultura e della Comunicazione del Senegal, African Fashion Gate è una realtà tutta nuova che mira ad attuare sul fronte internazionale un processo osmotico del valore del patrimonio culturale africano con quello del resto del mondo, grazie anche al partneriato con nomi del calibro di Bulgari, IED Roma, Miss Senegal, The Look of the Year e l’amicizia e il sostegno al progetto da parte di tanti personaggi influenti del mondo della moda e non solo.
Dietro al progetto sta una politica del fare, ma anche una del riflettere: il portare sulle passerelle del mondo le creazioni, le modelle e i modelli di AFG, vuole porsi come un’occasione per promuovere il dialogo interculturale e la contaminazione tra i vari linguaggi artistici, in un’ottica di assoluta parità degli uni rispetto agli altri.
Parità di dignità e di qualità certo, ma anche di numeri: non si faticherà a ricordare le lamentele di Naomi Campbell sulle enormi difficoltà incontrate dalle modelle non-bianche nel fare carriera, facendo notare come lei stessa – prima nera comparsa sulla copertina di Vogue in Inghilterra, venerata e strapagata – avesse ottenuto di fatto un numero di copertine decisamente inferiore rispetto alle bianche Kate Moss o Linda Evangelista.
Quella della Campbell non è stata certo l’unica voce di malcontento che si è levata contro l’ostracizzazione delle modelle “etniche”: tra quelle che fecero più clamore le dichiarazioni del fotografo Nick Knight e, nel luglio 2008, Vogue Italia, che sotto la direzione di Franca Sozzani pubblica il numero speciale “The Black Issue”, in cui ad essere immortalate dall’obiettivo di Steven Meisel sono esclusivamente bellezze black.
«Nessuno usa le modelle di colore. Io vedo ogni giorno bellissime ragazze che si
lamentano del fatto che non vengono fatte lavorare abbastanza» dichiarava Franca Sozzani sulle pagine dell’“Independent on Sunday” di aprile che anticipavano il tema dello speciale.
A quasi un decennio di distanza, gli equilibri si sono spostati di poco e tra gli obiettivi principali di African Fashion Gate ancora spicca quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e i principali stakeholder dei settori di riferimento sui temi dell’uguaglianza e delle pari opportunità nello show sistem.
E’ con questi presupposti che lo scorso giugno si è tenuto nella splendida cornice di Monte di Procida, con il sostegno della stessa African Fashion Gate, il primo Congresso Mondiale delle Donne della Moda e del Design “La Moda veste la Pace”, con lo scopo di accrescere la consapevolezza delle disparità e favorire le interrelazioni tra categorie, nazioni, culture e religioni.
Costruire un ponte, che non è più tanto sogno, tra l’Africa e l’Europa attraverso la moda e l’arte, rendere il mondo un posto più piccolo con quel calore da famiglia che si scambia gli auguri di Natale, creare una zona franca in cui le culture possano incontrarsi al netto della politica e farlo attraverso le donne, ambasciatrici di pace e tolleranza, è il fine Congresso: in fondo non sono state sempre le donne, nel loro ruolo non sempre ufficiale , a porsi per prime come vento del cambiamento? Come strumento di innovazione e promozione sociale?
A chi poteva andare il premio “La Moda veste la Pace” se non ad una donna che ha sempre lottato non solo per una moda equa, attuale e d’avanguardia, ma anche per rivendicare alla fashion industry il diritto di poter osare, parlare di sociale e di attualità, libera dai condizionamenti?
Non serve essere fashion victim per intravedere in questa descrizione la figura di Franca Sozzani.
«Penso che la moda non riguardi solo gli abiti, ma anche la cultura, il posto in cui si vive, i movimenti sociali ed economici, il razzismo: riguarda ogni cosa» diceva.
La storica direttrice di Vogue ha sempre fortemente sostenuto i valori a cui African Fashion Gate si ispira (non ultima la creazione di VBlack, il portale di riferimento per la moda “nera”) e al lavoro e alla memoria di questa donna appassionata, regina delle tendenze, colosso dell’editoria del fashion sarà intitolato dalla prossima edizione il premio che l’ha vista come unica vincitrice.
Non resta dunque che aspettare con ansia la seconda edizione di “La Moda veste la Pace” (che presto sarà anche un format televisivo) per scoprire chi avrà l’onore, e l’onere, di raccogliere il testimone di questa grande, immensa, donna.
Ylenia Leone