“Le Monde” l’ha definita «donna vulcano»: autrice, attrice e regista d’avanguardia, Emma Dante, come un moderno Ulisse, indaga il sentimento della vita, ma non dimentica la sua Itaca “perché, sì, è importante il viaggio, ma è importante anche il ritorno nel momento opportuno”
Una provocazione intelligente è come un sasso gettato con forza per smuovere acque ferme e paludose: è un gesto denso di forza e significato, un movimento che crea conseguenze, allargando le prospettive e i punti di vista, tanto quanto è larga l’ampiezza dei cerchi concentrici che si sviluppano da quel singolo punto di rottura. Così accade quando a provocare, proponendo di vietare almeno per 5 anni la rappresentazione dei classici in teatro per favorire la rinascita e la promozione della nuova drammaturgia, è Emma Dante, regista e drammaturga italiana dalla creatività immaginifica e suggestiva, che ormai si muove all’interno dell’universo teatrale nazionale e internazionale con la piena consapevolezza del peso specifico della propria ricerca artistica. È un viaggio inesausto il suo, come quello di Odisseo, un cammino che, a cavallo tra Palermo e Roma, l’ha portata ad esplorare il nodo cruciale dell’uomo, il binomio tra vita e morte, per realizzare un teatro veramente popolare e universale, un teatro incapace di lasciare indifferente lo spettatore, un teatro che è come un sasso decisivo scagliato nel cuore più profondo dell’umanità.
Emma Dante nasce come attrice, si afferma come regista teatrale e drammaturga e si concede un’incursione nel mondo del cinema come regista e come interprete: come descrive questo percorso artistico?
Il mio è stato un processo abbastanza naturale. Non avevo assolutamente in cantiere l’idea di dedicarmi alla regia teatrale, non sapevo di voler fare la regista. Semplicemente è successo. Volevo fondare una compagnia e io ero dentro come attrice, solo che non funzionava, perché non riuscivo a spiegare agli altri come volevo che si facessero le cose e di conseguenza sono uscita fuori. L’uscita da quel luogo scenico ha determinato poi il mio nuovo ruolo, ma non l’ho deciso razionalmente.
Per quanto riguarda invece il cinema, io ho fatto soltanto un film, direi che è poco per parlare di esperienza cinematografica: io sono essenzialmente una teatrante e mi occupo di teatro. Il cinema è stato uno sconfinamento sicuramente interessante, mi ha nutrito, però il mondo del cinema è un ambiente per me molto “straniero”, in cui non mi ritrovo. Io ho bisogno di umanità per fare bene il mio lavoro, il cinema è un settore troppo calcolatore. Per me diventa difficile trovare una produzione per il secondo film che vorrei fare, per cui devo concludere che mi sento molto più a mio agio nel mio mondo teatrale.
Il nostro paese spesso è ostaggio di un conservatorismo nutrito dalla paura di cambiare: il teatro ha ancora oggi i mezzi necessari per scuotere la stasi e far scaturire un nuovo processo di autentica catarsi collettiva?
Oggi è uguale a ieri, partiamo da questo presupposto. Non esistono delle epoche diverse, sono i modi in cui si dicono le cose che cambiano, ma la sostanza è identica. Com’era conservatrice prima l’Italia è conservatrice adesso, non mi sembra che ci sia una particolare degenerazione. Ci sono degli alti e bassi, ma non credo che le epoche siano diverse. Che significa parlare dei “giovani di una volta”? Questa frase è una sciocchezza, non l’ho mai potuta accettare come espressione. Alla fine i ragionamenti che l’essere umano fa sono sempre gli stessi, ci sono passetti in avanti, così come ci sono grandi passi all’indietro, ma alla fine ci si ritrova a lottare sempre contro le stesse cose. È chiaro che il teatro è lo specchio di quello che siamo, molto più di qualsiasi forma d’arte, perché il teatro è nella dinamica, nel movimento, nella vita. Invece un quadro – e anche il cinema stesso in qualche modo – immortala un’immagine, la fissa. Il teatro è quella forma d’arte destinata a morire nel momento in cui nasce. Per cui il teatro è esattamente l’uomo di fronte a se stesso e quindi può esserne un’espressione molto più intima.
All’estero il suo teatro è acclamato anche nelle sue accezioni più cupe e oscure: la poetica dei corpi invece in Italia continua a suscitare turbamento e scandalo. Nel nostro paese esistono ancora tabù irrapresentabili? Perché il pubblico ha difficoltà ad affrontare l’osceno e preferirebbe ignorarlo e confinarlo appunto al di là della scena?
Non sono io la regista che fa scandalo, ci sono altri nomi che di certo creano più turbamento del mio. I miei spettacoli sicuramente scuotono, commuovono o magari indignano, ma questo fa parte anche un po’ del gusto personale. Forse all’inizio c’è stato un certo scombussolamento, ma adesso la gente si è abituata a vedere il mio teatro e sceglie di vederlo, chi non lo sopporta non viene, chi invece ha voglia di farsi attraversare da emozioni e domande viene. Non c’è più quel conflitto che c’era all’inizio. Il conflitto c’è quando un artista è poco conosciuto e dunque lancia la sua voce con grande violenza. Adesso la mia situazione è diversa, io non sono più un’artista emergente, non sono più un’artista giovane. Sono un’artista che continua a fare la sua ricerca, però la sua ricerca è già abbastanza inquadrata, nel senso che lo spettatore, così come il critico, sa esattamente qual è la strada che io sto percorrendo. Lo scandalo non c’è più, non è una parola che mi può accompagnare. Forse quando feci la Carmen alla Scala ci fu polemica, però fu un grande clamore voluto dai media. Effettivamente di scandaloso non c’era nulla in quello spettacolo.
La rappresentazione del dolore sulla scena costituisce uno degli snodi fondamentali del suo teatro: mettere in campo apertamente il lutto può rivelarsi una scelta terapeutica oltre che artistica?
Ecco, ad esempio, in Italia rappresentare la morte è una cosa che può destare scandalo. Questo è un tema interessante da discutere. Più che di effetto terapeutico, direi che la rappresentazione della morte può dare fastidio: può infastidire parlare di qualcosa che alla fine riguarda tutti noi. Nessuno, assolutamente nessuno sarà graziato da questo punto di vista. La morte è quindi l’unico vero argomento che ci riguarda tutti, senza distinzioni. I tabù come omosessualità e diversità di genere, miseria e difficoltà familiari costituiscono tutta una serie di problematiche che non riguardano necessariamente tutti. Non tutti hanno il problema della povertà o il tabù dell’omosessualità, ma tutti condividono lo stesso problema, tutti devono morire. La morte è davvero l’unica cosa che accomuna l’umanità, per questo il mio teatro la affronta, perché io voglio fare un teatro popolare e quindi voglio parlare di un argomento che ci riguarda. Per questo parlo della morte, ma anche della vita, dal momento che non ci può essere l’una senza l’altra. I due grandi temi del mio teatro sono proprio questi: la vita sempre insieme alla sua compagna, la morte. Dunque questo può creare scandalo, perché magari una persona preferisce andare a teatro per intrattenersi, per passare una serata leggera, per non pensare ai problemi che ha e invece si ritrova di fronte una tragedia. Da qui lo scandalo.
Il suo cammino è iniziato a Palermo, per poi proseguire a Roma e infine approdare nuovamente a Palermo: cosa significa per lei questo viaggio e cosa ha in comune con quello di Ulisse che porterà in scena al prossimo Festival di Spoleto con gli allievi della Scuola dei mestieri dello Spettacolo?
Tutti gli esseri umani affrontano un viaggio nel corso della propria vita, anche se qualcuno sente di non averne la necessità. Io sento di averlo fatto e il mio è sicuramente un viaggio bellissimo. Gli anni passano e il sentirsi sempre giovani è un sentimento a mio avviso anche un po’ sbagliato. Io adesso sono consapevole degli anni che sono passati, come Odisseo, che arriva invecchiato a Itaca. Non ce lo dimentichiamo: noi diciamo sempre che bello, l’eroe arriva a Itaca, ritrova i suoi cari, sarà felice, ma in realtà lui trova il cane Argo che sta morendo perché ormai è vecchissimo, trova Penelope piena di rughe e di dolore per averlo aspettato per tutto quel tempo, il figlio Telemaco cresciuto senza che il padre abbia potuto seguirne le fasi di crescita. Per cui, sì, Odisseo arriva a Itaca, ma che cosa trova? È bello il viaggio che fa Odisseo, ma poi alla fine al ritorno niente è più come lo aveva lasciato. Allora uno due domande se le fa, perché, sì, è importante il viaggio, ma è importante anche il ritorno nel momento opportuno. Io non sarò mai un’eroina come lo è stato Odisseo, ma ho anche scelto di non esserlo, forse non sono abbastanza ambiziosa come lui rispetto all’idea del viaggio. È fondamentale cercare un momento giusto per tornare: io credo di essere tornata nel momento migliore, perché ero ancora giovane e avevo la forza di fare le cose che ho fatto in questa città, Palermo, in questa isola, la Sicilia, che amo e odio: non sono tornata da “vecchia”, sono tornata da giovane e adesso che comincio a essere vecchia sinceramente me ne vorrei andare, mi vorrei allontanare di nuovo da Itaca. La nuova tappa è l’allontanamento da Itaca: anche Ulisse, secondo me, se ne va subito, all’indomani del ricongiungimento cerca immediatamente un altro motivo per andarsene.
Quale futuro intravvede per la drammaturgia in Italia, quali frontiere ci sono ancora da abbattere e quale progettualità occorre mettere in campo per aiutare le nuove leve e ridare linfa vitale alle rappresentazioni sceniche?
Secondo me bisogna avere il coraggio finalmente di prendersi un tempo, da 5 a 10 anni, in cui si vieta la rappresentazione nei teatri dei testi classici. Si vieta Shakespeare, si vieta Pirandello, forse l’unico che potrei ancora accettare è Eduardo, perché è molto più giovane. Però se si vieta un po’ di roba classica e si cerca di realizzare delle programmazioni teatrali coraggiose in cui dar spazio alla nuova drammaturgia, allora forse qualcuno avrà il coraggio di scrivere, dei testi brutti o dei testi belli non importa, ma avrà il coraggio di scrivere delle storie nuove e dall’altra parte il pubblico potrebbe decidersi di andarle a vedere a teatro. Altrimenti non cambia mai nulla, la gente va a teatro e si comporta come i bambini che vogliono ascoltare sempre e solo la stessa favoletta, è un comportamento infantile. Una persona matura, un abbonato, un individuo che sceglie di andare a teatro perché vuole aprirsi la mente non può richiedere sempre la stessa favoletta. Secondo me, bisognerebbe avere il coraggio, sia da parte dei programmatori che da parte del pubblico e dei critici, di avallare un certo tipo di programmazione che non sia sempre la solita solfa dei consueti testi tradizionali che mettono d’accordo tutti, investendo al contrario nella nuova drammaturgia. Se ci fosse questo aiuto, questa fede, verrebbero fuori anche dei grossi talenti, io sono sicura che emergerebbero. Il problema è che nella realtà i teatri non programmano la nuova drammaturgia, si spaventano. La nuova drammaturgia è sempre confinata nelle rassegne, sempre. Non c’è mai un cartellone in cui la maggior parte dei progetti siano legati alla novità. Allora ecco, si potrebbe davvero pensare a introdurre un divieto, anche solo di 5 anni: a volte dai divieti nascono anche delle grandi opere d’arte, se un artista ha dei paletti questo sviluppa in lui un grande senso di sfida, può essere un esercizio interessante. Certo vietare è brutto, la mia è una provocazione, ma serve scuotere le acque.
Elisabetta Pasca