Chissà come avrebbe giustificato Dante il suo poema se fosse, anche lui, venuto a conoscenza di questa “sconvolgente” notizia e se, all’improvviso, quel cammino di redenzione necessario al processo di purificazione dell’anima macchiata dal peccato, figlio dei vizi, si fosse rivelato vano… Nessuna pena da scontare proporzionata, secondo il contrappasso, alla natura del vizio. Nessuna condanna per non aver saputo resistere alla lussuriosa tentazione del cibo, della passione, della ricchezza. I vizi ci fanno stare meglio e costituiscono un proficuo “farmaco” per il cervello. Lo sostiene uno studio condotto dallo psicologo australiano Simon Laham, dell’Università di Melbourne, il quale, nel suo libro intitolato The Joy of Sin (Constable) passa in rassegna i pregi dei sette vizi capitali per il benessere mentale di ognuno di noi, associando ogni peccato ad una virtù specifica per il benessere del corpo. Cosa da far rabbrividire le menti più conservatrici del mondo cattolico e non.
«I vizi capitali non sono altro che un elenco d’inclinazioni morali e comportamentali della nostra anima. Li abbiamo sempre condannati come i peccati che ci spediranno tutti all’inferno, ma da una più attenta analisi alle evidenze scientifiche risulta il contrario: se controllati, possono farci bene» tuona Laham. L’importante è non esagerare; concedersi uno sgarro alla dieta ogni tanto conferisce piacere senza compromettere linea e salute. Infatti gli studi dello psicologo dimostrano che chi compiace la propria gola con premi saltuari possiede una più spiccata attitudine al problem solving. L’avarizia, invece, renderebbe più felici. Dante ritraeva questi peccatori nell’atto di spingere pesi con il petto lungo la circonferenza di un cerchio, ma non in tondo; “Perché tieni?”, “Perché burli (cioè sperperi)?”, si ingiuriavano tra loro. «Se l’avidità non è eccessiva e non compromette relazioni e salute, non ci sono controindicazioni a volersi arricchire. I soldi, se spesi saggiamente in esperienze come viaggi o concerti, piuttosto che in beni materiali fini a se stessi, si traducono in felicità» sostiene Laham.
Il pensiero stesso del denaro, mezzo che aiuterebbe ad affrontare qualsiasi problema, secondo lo psicologo, indurrebbe nell’animo una sensazione di autosufficienza, accrescendo l’autonomia del singolo e la fiducia nelle proprie capacità. Secondo la scienza gli invidiosi non saranno più costretti a nascondersi per la vergogna di quel panno grezzo con cui Dante ricopriva le sue anime dannate, costrette ad appoggiarsi l’una alla spalla dell’altra, tutte addossate alla roccia, con quelle palpebre cucite da un fil di ferro, gonfie di lacrime. Per la moderna scienza guardare alla fortuna altrui non costituisce motivo di accecamento, bensì un utile sprone a far meglio per se stessi. Stesso discorso vale per la superbia, che incoraggia a superare i propri limiti. Da fuggire, però, la competizione con persone sbagliate, dal momento che un eccessivo orgoglio genera arroganza e narcisismo. La rabbia, intensa come il rancore per un’ingiustizia, se gestita con catartico autocontrollo, indurrebbe ad essere più forti e padroni della propria vita. «Se incontriamo un ostacolo alla realizzazione dei nostri obiettivi, ci arrabbiamo: ma questo sentimento ci induce a tenere duro per raggiungere il successo sperato». E se “l’ozio è il padre dei vizi”, l’accidia è il peccato migliore in assoluto, dal momento che genera serenità, fa fare bei sogni, migliora l’intuito e consente, addirittura, di sognare a occhi aperti.
Caro Dante, forse sei ormai fuori moda con la lussuria punita di Paolo e Francesca, con il goloso Ciacco, con la superbia di Nembrot e Saul, con l’avarizia di papi e cardinali. Oggi la scienza dimostra che i vizi sono pregi e ci rendono migliori. O forse si tratta solo di un pretesto per ripulirsi la coscienza restando in pace con se stessi.
di Samantha De Martin