Essere single è arte, talento, manifestazione implicita di socievolezza e curiosità. Lo rivela un articolo di David Brooks, apparso sul New York Times, a commento del libro Going Solo, frutto di una ricerca sociologica di Erik Klinenberg, una sorta di pietra miliare degli studi sul nuovo sistema sociale caratterizzato da un numero sempre crescente di persone che antepongono la vita solitaria alla comunitaria condivisione dell’intimo locus amoenus della propria esistenza.
Questo fenomeno, espressione del “monadismo solipsistico” dei nuovi tempi, è oggetto di studio negli Stati Uniti sin dagli anni ’60, epoca in cui Helen Gurley Brown pubblicò Sex and the single girl, manifesto che per primo teorizzò la possibilità che le donne potessero sentirsi realizzate anche al di fuori del matrimonio. A distanza di quarant’anni, la fortunata serie Sex and the city intinse l’analisi anticonformista di Gurley Brown nei non troppo diversi pastelli del panorama attuale.
Costituiscono circa il 50% della popolazione americana coloro che hanno scelto, oggi, di aderire all’esercito dei single e in Europa sono i Paesi scandinavi a vantare il più alto tasso di nuclei familiari composti da un solo individuo.
L’ossimorica constatazione, quasi parossistica, del sociologo statunitense è la costante possibilità dei single di sentirsi interconnessi pur rimanendo soli a casa, grazie alla tecnologia e ai social network, ma soprattutto grazie alla struttura delle città che gravitano intorno all’individuo assorbendolo nella comunità. Ne costituisce un esempio l’housing sociale diffuso nei Paesi scandinavi, ovvero la costruzione di quartieri con servizi comuni che simboleggiano una sorta di sprone all’incontro e alla socializzazione.
Secondo Klinenberg sono proprio i single i più portati a maturare una tendenza all’aggregazione nell’intento di forgiare una società più attiva e dinamica. Tuttavia non tutti sono capaci di vivere questo voluto solipsismo con serenità e dinamismo. Esiste infatti un «volgo disperso» costituito soprattutto dalla popolazione maschile di una certa età che stenta a sentirsi tranquilla stando da sola, incapace di forgiare interessi e aderire a reti di sostegno.
In Italia, nonostante la comunità single cominci ad avere sempre più proseliti, la presa di coscienza di questa nuova realtà sociale è quasi del tutto assente, anzi sempre molto radicata è l’opinione secondo cui questi virtuosi solitari costituiscano un ostacolo all’aggregazione comunitaria. Certo è che nel nostro Paese non ci sono ancora i presupposti che consentano a chi vive da solo di divenire artefice di quel cambiamento dinamico sociale cui fa riferimento il New York Times delineando il ben diverso quadro degli States.
Quanto alle microrealtà di provincia, è ancora malevolo e carico di pregiudizi, l’occhio con cui si guarda all’individuo che trascorre da solo la propria esistenza tra le mura domestiche.
Siamo ancora distanti da una vera presa di coscienza del dilagante fenomeno che coinvolge l’epoca che più di ogni altra ha dato sfogo al monadismo volontario. Bisognerà aspettare ancora prima che questa realtà venga presa in considerazione. Nel frattempo bisognerà rassegnarsi a quell’assenza di presenza, alla carenza di odori, profumi, sapori, movimenti che non siano i propri, in quel locus amoenus che per molti è costituito dalla propria stessa dolce, ricercata solitudine.
di Samantha De Martin