Cannes – Alla fine i pronostici hanno avuto ragione. The Tree of Life, il film non film, dalla trama non trama, di Terence Malick, ha vinto la Palma D’Oro. Era nell’aria già da qualche giorno, anche se, l’opera magnetica e profondamente esistenzialista, non era piaciuta molto alla critica internazionale; e se era piaciuta, lo aveva fatto con riserva.
Non è la prima volta che un film di Malick vince qualcosa. I suoi cinque film in quaranta anni di carriera (realizzati solo quando il regista è pronto a farli), hanno lasciato un segno indelebile nella cinematografia mondiale. Perché vanno ben oltre la settima arte in sé. Sono dei capolavori a se stanti, così personali e viscerali, che difficilmente vengono dimenticati. Basti ricordare la folgorante fotografia I Giorni del Cielo, con un Richard Gere giovanissimo, che si aggiudicò il premio per la miglior regia. Oppure La sottile linea Rossa, antitetico film di guerra (di tutte le guerre anche quelle personali e viscerali), che vinse a Berlino l’Orso D’argento.
The Tree of Life, è musica in immagini. Infatti la musica classica fa da sfondo alla trama, come si trattasse un concerto sulla vita e sulla morte di tutto quello che si agita sul nostro pianeta. A sentir dire, l’assegnazione del premio, è stata abbastanza travagliato. Ma era chiaro fin dall’inizio di questo sessantaquattresimo festival di Cannes (che come autori in gara resterà negli annali) che proprio il film di Malick era tra i più probabili vincitori. Robert De Niro, come presidente della giuria aveva detto che non avrebbe fatto sconti a nessuno e che la Palma sarebbe stata data al film più di “rottura”. La stessa cosa era accaduta l’anno scorso con Lo Zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti, un film misterioso e allucinatorio, lentissimo che faceva leva sulla mistica e le emozioni sensuali. Un’opera così intricata da non essere stata capita quasi da nessuno, almeno qui nel mondo occidentale.
The Tree of Life non è così criptico, anche se quella parte in cui l’assonometria tra la nascita della vita sulla Terra e la nascita dei tre figli di Brad Pitt, si può ascrivere ad un elegia così intellettuale che può ricordare 2001 Odissea nello Spazio, almeno per quanto riguarda la tesi che nulla capita a caso. The Three Of Life ha vinto e come era nelle previsioni a ritirare il premio c’era uno dei produttori che ha ribadito “i film di Malick parlano per lui”. E tanto basta.
Per il resto, il Gran Premio della Giuria è andato ai fratelli Dardenne (anch’essi avezzi a profluvi premi guadagnati a Cannes) per Il ragazzo con la bicicletta e a ex aequo al turco Once Upon a Time in Anatolia, del regista Ceylan. La Giuria ha anche premiato Polisse della francese Maiwenn Le Besco, crudo ritratto della difficile reinserimento dei bambini sottoposti a violenze. Il premio per la regia se l’è aggiudicato invece Nicolas Winding Refn con il film Drive. Quello della miglior attrice femminile è andato a Kirsten Dunst per il contestato Melancholia dell’epurato Lars Von Trier dopo le sue esternazioni naziste.
Il miglior attore invece è stato Jean Dujardin, interprete di The Artist di Micheal Hazanavicius, altro film agli antipodi in quanto muto ed in bianco e nero. E gli italiani? Ancora niente. Ed è un peccato perché in molti si aspettavano un riconoscimento a Sean Penn per la sua intensa immedesimazione della vecchia rock star alla ricerca dell’aguzzino del padre in This Must Be The Place di Paolo Sorrentino. E si mugugnava qualcosa anche per Michel Piccoli, in quanto Papa in crisi di Nervi, nel non propriamente convincente Habemus Papam di Nanni Moretti. Si chiude così questa bellissima edizione di un festival che non smette mai di stupire. Delusi o meno. Vincitori o vinto. Il cinema, quello di qualità, vince sempre.
da Cannes, Roberto Leggio