In un prossimo futuro (tristissimo e inquietante) gli esseri umani interagiscono con il mondo esterno con dei veri e propri Avatar androidi (niente a che vedere con quelli di James Cameron di prossima uscita); comandandoli tranquillamente dalle proprie abitazioni, grazie ad imput sensoriali. In questa sorta di Second Life, il crimine è calato dell’95%, l’amore è fatto attraverso scariche elettriche, il lavoro (qualsiasi) non è più motivo di stress e anche le guerre vengono combattute tra sembionti meccanici. Ma questo mondo perfetto viene scovolto da una serie di omicidi “veri” non casuali (tra cui il figlio dell’inventore dei replicanti), che impongono all’agente Peters (Bruce Willis) di tornare ad indagare nel mondo reale. Il problema che in una società di maschere di chi ci si può fidare, quando quello che ti circonda è fittizio?
Concentrato della graphic novel “The Surrogates” di Robert Venditti e Brett Wendele, il film di Jonathan Mostow è un surrogato di molta fantascienza anni ’80 e ’90 (ma anche molto più retrò) al quale manca quel non so che per elevarsi ad un capolovoro di genere. (GUARDA IL TRAILER)
Infatti, pur essendo avvicente e pieno di tematiche etiche (su tutte l’uso indiscriminato della biogentica), resta ingabbiato in certe approssimazioni da film di serie B. Merito (o demerito) di una trama abbastanza lineare che non si perde in lungaggini di sorta, andando diritto alla concretezza. La scelta registica permette di non incappare in errori di sorta (sottotrame di difficili comprensioni), ma che impongono però di non approndire le motivazioni che spingono tutti i protagonisti (e non) a fare quello che fanno. Così il risultato resta un po’ incolore e senz’anima proprio come i Surrogati della vicenda.
Intelligente invece la scelta di non eccedere in effetti speciali mozzafiato, affidandosi invece a soluzioni semplici ma molto efficaci (i Surrogati di ognuno sembrano dei bambolotti pulitini e bellocci, interpretati tra l’altro dagli stessi attori). Magari siamo davanti ad un prodotto indietro nel tempo, lontano dai canoni dal cinema ci ha abbituato negli ultimi anni (la mancaza di quella giusta dose di cattiveria che convergere nel tropppo rassicurante finale), ma che resta, ad ogni modo, abbastanza gobile per i suoi stringati noventasei minuti.
Roberto Leggio