Carlo Verdone ha trovato una nuova musa. Questa volta la scelta è caduta su Laura Chiatti, protagonista della sua ultima fatica: Io, loro e Lara uscito il 5 gennaio in 650 copie, distribuito dalla Warner Bros che il regista ha dedicato al padre Mario, da poco scomparso. (GUARDA IL TRAILER) Il fim narra la vicenda di Don Carlo Mascolo, un sacerdote missionario (Verdone) che torna dall’ Africa a Roma, dalla sua famiglia, portando con sè un bagaglio di profonda crisi spirituale. Ma, invece, di trovare conforto dai suoi famigliari, si scontrerà con persone poco equilibrate, assolutamente concentrate solo su sé stesse e i loro problemi. “Erano anni che volevo fare un film con Laura. A lavorato molto ma, secondo me, nessuno è mai riuscito a farle esprimere tutte le sue potenzialità”. - così il comico spiega le ragioni della sua scelta.
Verdone è uno che, almeno sul set, ama sedurre le donne. E’ un amabile cine-pascià che nella sua lunga carriera dietro la macchina da presa ha lanciato o riscoperto una serie infinita di bellissime giovani attrici. Qualche nome? La Eleonora Giorgi di “Borotalco”, la Natasha Hovey di “Acqua e sapone”, la Ornella Muti di “Io e mia sorella” e “Stasera in casa di Amici”, la Namcy Brilli di “Compagni di scuola”, la Margherita Buy di “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”, la Francesca Neri di “Al Lupo al lupo”, la Asia Argento di “Perdiamoci di Vista, la Claudia Gerini di “Viaggi di nozze” e “Sono pazzo di Iris Blond”, la Regina Orioli di “Gallo Cedrone”.
Perché ha voluto Laura Chiatti con i capelli scuri?
Perché quando l’ho conosciuta e mi ha emozionato aveva i capelli castani. Non che non fosse bella bionda, con i capelli che le rendono più luminoso il viso, ma credo che questo colore le valorizzi lo splendido colore degli occhi. Con questi occhi è una che starebbe bene anche con un gatto in testa! (ride)
Com’è andata la prima seduta di lettura del copione?
Lei è venuta a casa mia con il copione e ha tentato di leggere qualcosa. Io l’ho rassicurata e le ho dato dei consigli. Le ho detto di non avere fretta perché tanto ci sono io sul set a darle i tempi recitativi. Lei è andata via felice e serena, con la consapevolezza che ha una valida guida dietro la macchina da presa.
Con gli anni e con il successo lei è andato sempre più valorizzando il ruolo delle sue partner, rendendole personaggi a tutto tondo…..
Si, ho uno speciale rapporto con il femminile che, evidentemente, riesco a trasfondere nel mio cinema. Le donne sono un pianeta fantastico e più interessante degli uomini: in loro trovo più comprensione, più pazienza.
Quest’anno ha festeggiato trent’anni di carriera, pensa ad una svolta?
Si, ho avuto molto dalla vita e da da ora in poi voglio fare film di questo tipo, anche più coraggiosi. Inoltre voglio dare molto spazio ai giovani, e sempre da pedinatore degli italiani quale io mi sento.
Come mai le è venuta la voglia di vestire i panni di un sacerdote?
Amo le sfide e più i personaggi sono impegnativi più mi affascinano. Ero stanco di interpretare il solito borghese volgare o il proletario. Per questo ho chiesto ai miei sceneggiatori di pensare a qualcosa di diverso. Non volevo neppure un altro film a due come quello con Silvio Muccino e, proprio nel momento in cui eravamo in una fase di stallo, è venuta quest’idea. E’ un film corale dove ci sono molte scene divertenti, soprattutto quando ritorno nella mia famiglia, ma è una pellicola che fa molto riflettere.
Con la sua fede in crisi ha voluto lanciare una critica al Vaticano?
No, ho fatto molte consulenze con i sacerdoti ed ho scoperto che il 95% di essi ha, nell’arco della vita, una crisi, una perdita di fede, un momento di dubbio che poi, però, si concretizza in una rinascita della loro missione spirituale. E’ vero però che nel film ci sarà un accenno al problema dei profilattici. Come sacerdote che torna dall’Africa parlerò di questo tema con le istituzioni ecclesiastiche ma non ci sarà una polemica aperta.
Chi sono stati i suoi consulenti?
Innanzitutto mons Tonini che è un mio vicino di casa e che stimo molto. Gli ho anche prestato il mio film “AL lupo al lupo” e, forse per farmi un complimento, mi ha detto che l’ha trovato di grande spessore. Inoltre ho parlato con molti missionari comboniani i quali mi hanno detto che dovevo astenermi dal mettere in scena una figura di sacerdote stereotipata televisivo, anni 50. Così farò: nel film non indosso mai la tonaca!
Alla fine il sacerdote Verdone scopre che è più sana l’Africa che il nostro mondo occidentale…
Si, questo film vuole dare un piccolo messaggio. In Africa non hanno tempo per la psicanalisi e, nonostante le difficoltà della vita, hanno dei valori umani più solidi. Il mio personaggio rientra in famiglia per essere confortato e capisce che nessuno gli dà ascolto: sono tutti presi nel loro caos e dal loro narcisismo creato dal sistema dei valori futili che abbiamo in occidente. Questo film è anche una piccola critica verso il razzismo, il modo in cui accogliamo gli africani nel nostro paese.
Che effetto le fa tornare a girare a Cinecittà?
Provo molto emozione e paura. E’ come se tornassi indietro negli anni a fare “Un sacco bello” solo che ora non c’è più Sergio Leone. Ho talmente paura che per questo film ho radunato la mia troupe di sempre perché ho bisogno di sentirmi in famiglia. E’ il film più teatrale che abbia mai fatto perché una buona parte è girato in studio nella casa di mio padre e di mio fratello.
Ma è andato anche in Africa…
Si, non potendo ricostruire una missione a Cinecittà ho scelto di girare inl Kenia perché è uno dei pochi paesi che è coperto da assicurazione per i rischi. Girerò a nord di Nairobi, nel Samburo, a 280 chilometri dal confine somalo.
Perchè ha deciso di dedicare il film a suo padre?
Si è ammalato mentre girato il film e, ogni volta che lo andavo a trovare in ospedale mi diceva: ‘Non venire più, vai via, se no lo sbagli questo film e io non voglio’. Quindi non potevo non dedicare la pellicola a lui e alla immensa generosità che ha dimostrato fino alla fine”.
Oriana Maerini