Una storia senz’altro a lieto fine, quella di Francis Ford Coppola, regista di pietre miliari della storia del cinema come Il Padrino. Uno che a diciassette anni era un giovane studente di teatro come tanti. Uno che, mentre faceva il militare, di notte piangeva perché provava a scrivere senza successo e pensava di non possedere alcun “talento”, parola d’ordine nella sua famiglia. Uno che ha conosciuto bene le difficoltà della vita e deciso di entrare nel mondo dello spettacolo solo dopo aver visto sul grande schermo, folgorazione inaspettata, Ottobre di Ejzenstejn: “Vado al cinema da quando ho cinque anni, mi portava sempre mio fratello. Non ricordo di aver mai visto niente di così straordinario prima di allora: uscito dalla sala decisi di dedicarmi al cinema e non più al teatro, forse perché colsi subito l’alchimia del montaggio filmico: quel poter giocare con le scene mi affascinava…
Insomma: mi iscrissi presto alla UCLA”. Questi gli esordi di uno dei cineasti più famosi al mondo, vincitore di svariati premi (fra Oscar, Golden Globe e Palme d’oro, c’è solo l’imbarazzo della scelta), capostipite di una famiglia d’arte (per fare solo due nomi: Sofia Coppola, regista di Marie Antoinette è la figlia, Nicolas Cage il nipote). Il resto è leggenda, una carriera eccezionale che negli ultimi anni si concede il lusso di percorrere binari artistici del tutto personali. Ne è prova evidente Segreti di famiglia, complessa tragedia familiare da lui scritta, diretta e prodotta (con la American Zoetrope, fondata insieme al collega e amico George Lucas: un’anti-Hollywood esperta nel sonoro che fa base a San Francisco, premiata con il Premio Gran Torino al recente festival del cinema), presentata a Cannes e uscita in sala il 20 novembre scorso.
Un film autobiografico?
Solo per certi aspetti: mio padre ad esempio era un musicista, ma non così famoso come Tetrocini. La figura del padre ha una lunga tradizione drammatica, risale a Zeus, Giove, il mito del padre come onnipotente che il figlio deve arrivare a spodestare. Mentre il rapporto fra fratelli, dove il minore idealizza il maggiore, è mio: nella vita ho sempre stimato mio fratello più grande, e cercato di essere come lui.
E’ vero che da ragazzo pensava di non possedere talento?
Proprio così, e ho imparato a mie spese che un talento viene fuori in tanti modi. Tutti a scuola ci siamo resi conto che alcuni erano più bravi di noi in qualcosa, questo perché ognuno può avere una dote o non averla, ma è vero che si può compensarne l’assenza con costanza e applicazione continua. Questo è valido soprattutto per la scrittura: se vuoi fare lo scrittore e lavori duro e provi e riprovi, allora puoi migliorare.
Geni non si nasce, quindi?
Intendo dire che o ci nasci, come Picasso, oppure ci sono vari modi per diventarlo: è la ricompensa per fatica e dedizione vere.
Più volte ha parlato di cinema come sogno, è questa la sua concezione di settima arte?
Il cinema ha la coscienza di un essere umano, dei nostri sogni. Forse il cinema è proprio come l’essere umano, vivo, selvaggio, imprevedibile. E poi è un’arte mondiale, dal Messico all’Iran tutti possono dare il loro contributo per arricchirlo. Mi auguro che anche in Italia, patria di grandi attori, il cinema rinasca.
E negli Stati Uniti com’è, oggi, la situazione?
Purtroppo la “M” da noi non sta per “movie”, ma per “money”: non ho nulla contro i soldi, io per primo ne ho fatti tanti e persi altrettanti, ma per fare cinema bisogna osare: non sarà il tridimensionale a risolvere i problemi, sbaglia chi lo pensa. Se non rischi, il cinema muore.
Claudia Catalli