La recente mostra del MET (Metropolitan Museum of Art) di New York, “The Model as Muse: Embodying Fashion“, ha evidenziato come negli anni spesso sono state le modelle a ricoprire il ruolo di icone soprattutto a cavallo fra gli anni ottanta e i novanta, quando hanno rubato la scena alle attrici, perché Hollywood prediligeva attrici sul modello di Sally Field, Meryl Streep, Diane Keaton, Susan Sarandon, attrici dal grande talento, impegnate, molto serie e poco interessate al glamour, o nomi come Julia Roberts all’inizio della sua carriera e Kim Basinger, spesso finite nella lista delle peggio vestite fuori dal set.
A metà degli anni novanta sulla scena hollywoodiana sono comparse invece attrici decisamente più commerciali che, a differenza delle loro colleghe impegnate, hanno basato il loro percorso lavorativo sull’immagine, sull’essere glamour, un punto di riferimento. Per fare questo ci si è dovuti affidare a stylist come Rachel Zoe, che hanno iniziato a vestire le giovani star che si sono riappropriate della moda e, a loro volta, sono improvvisamente diventati famosi.
Quale migliore vetrina, per stylist e fashion designer, dei red carpet di prime faranoiche, di serate charity, ma soprattutto dei festival del cinema sparsi per il mondo e ovviamente della notte degli Oscar, per mostrare il proprio lavoro, per vedere le loro creazioni fotografate ad appannaggio di media sempre più affamati di notizie e di immagini della nuova generazione di attori e attrici, forse più che del loro lavoro? Le nuove dive però sono differenti dalle loro illustri colleghe di un tempo, come Audrey Hepburn, solo per citarne una, perché oggi tutte vestono tutto e viene a mancare quel rapporto di complicità e collaborazione fra uno stilista e un’attrice, continuativo e intimo, da permettere di assurgere al ruolo di musa ispiratrice, se non in rarissimi casi.
Gli stilisti, dal canto loro, cercano di accaparrarsi copertine, passaggi tv, immagini in rete per rafforzare ancora di più il potere del loro brand e avere una pubblicità così massiccia, come nessuna campagna o sfilata può garantire.
I festival del cinema, nessuno escluso, sono ormai divisi in due momenti ben precisi: quello culturale e cinematografico (che è poi lo scopo della loro esistenza) e quello “fashion-gossipparo”, che è quello del red carpet, oggi altrettanto importante e vitale, anche come ritorno mediatico per il festival stesso. In fondo, non passa anno in cui non ci si chieda chi va dove e cosa indosserà per farlo! Nonostante tutta questa sovraesposizione di brand, i mega party organizzati da questo o quello stilista per avere il maggior numero di star alla propria corte, non si creano più momenti memorabili che verranno ricordati nel tempo. Quando la Hepburn arrivava indossando le creazioni di Givenchy, il sogno si materializzava, ma soprattutto si fissava un’immagine eterna. Anche se con qualche eccezione, per quanto riguarda le dive moderne. Come Liz Hurley, allora compagna di Hugh Grant, arrivata alla prima di “4 matrimoni e un funerale” indossando, come seconda pelle un abito Versace stile neo-punk, con spille da balia a coprire le grazie della diva, o Gwyneth Paltrow in tuxedo rosso di Gucci agli Mtv Awards o in rosa romantico Ralph Lauren agli Oscar. Pochi sprazzi di genio in un mare di outfit che non resistono più del tempo di uno scatto.
Ma il red carpet può essere anche la fiera del cattivo gusto: le scelte trash di Cher agli Oscar sono memorabili e coerenti con il suo essere assolutamente sopra le righe e fuori dalla moda.
La scelta dell’abito è frutto di un ragionamento, quasi sempre fatto dallo stylist: indossare un giovane designer per una grande diva è un’opportunità per far parlare di entrambi, scegliere un designer dell’olimpo della moda per una giovane artista è anche un modo per dire: guardatemi, sto diventando qualcuno.
Nel mondo del cinema, d’altronde, il rapporto con la moda, e più in generale con il fashion system, è sempre più stretto, sia dentro sia fuori lo schermo. Pellicole come “Sex and the city”, “I love shopping” e naturalmente “Il diavolo veste Prada” fanno dell’ostentazione delle griffe, dei cambi di abito delle protagoniste e dei protagonisti (guai a pensare che gli uomini siano esenti da tutto questo…) il loro punto di forza.
“Sex And The City”, la serie, ha fatto scoprire ai non addetti ai lavori, alle non fashion victims, nomi come Oscar de la Renta e Manolo Blahnik, ha visto comparse illustri come Isaac Mizrahi, stilista che nel 1994 aveva portato sugli schermi – con il suo “Unzipped”- il dietro le quinte della preparazione di una sua collezione, in un periodo in cui i docu-film non erano ancora in voga.
La Meryl Streep/Miranda Priestley de “Il diavolo veste Prada” è perennemente al telefono con Patrick Demarchelier, genio della fotografia di moda, anche se la battuta forse più riuscita è di Nigel, il fashion editor di Miranda che, alla vista della sprovveduta neo assunta Andrea esclama: “Qui c’è un disperato bisogno di Chanel”.
Festival, film a tema, red carpet e prime… il cinema è dunque da sempre una passerella, una vetrina, un non luogo dove il glamour, il fascino, l’eleganza regnano sovrani.
Un buon modo per continuare a sognare un mondo che, nonostante tutto, continua ad attirare attenzione e interesse oppure per accorgersi, snobisticamente, che anche le attrici possono indossare una mini senza poterselo permettere, o un colore improponibile. Esattamente come noi.
Stefano Mastropaolo
(Nella foto Nicole Kidman)