Il volo di linea diretto KLM atterra all’aeroporto di Arusha-Kilimanjaro la sera dopo 8 ore di viaggio da Amsterdam. Fuori è buio; il vulcano solitario più alto d’Africa, a cui è dedicato l’aeroporto, rimane immerso nella magica notte africana, senza luci e con tantissime stelle. Il giorno seguente, alla luce di un pallido sole, si vede un grande cono nero che si staglia all’orizzonte: no, non è il Kilimanjaro che, nonostante i suoi 5.896 metri, è praticamente invisibile da Arusha, seconda città della Tanzania e capitale dei safari della regione settentrionale. Il grande cono nero con la vetta immersa nelle nuvole, che sfumano i contorni dell’intera sagoma, è il Monte Meru, antico vulcano inattivo ma non del tutto spento, che con i suoi 4.566 metri è la seconda montagna più alta del Paese.
Lasciata la capitale dei safari alla sua frenetica attività mattutina, ci dirigiamo ad occidente per raggiungere il parco del Lago Manyara, prima tappa del viaggio. La strada asfaltata, in ottime condizioni, attraversa a circa 1.330 metri sul livello del mare un altopiano punteggiato di capanne tonde, fatte di paglia e fango, riunite in piccoli villaggi. Nello spazio immenso della savana, bordato di montagne lontane, si vedono i giovani pastori Maasai nei loro abiti tradizionali condurre al pascolo mandrie di vacche chiare e scure, nell’aria vagamente polverosa della pista che stanno seguendo. L’odore è piacevole, pulito, nonostante la presenza di animali e della polvere; i colori sono quelli delle tinte ocra della terra riarsa dal sole e dell’erba secca, con sporadiche macchie verdi polverose degli arbusti bassi e delle agavi slanciate poste lungo il bordo della strada a delimitare i sentieri. L’aria secca non fa sudare e permette di non accendere l’aria condizionata della jeep. La guida-autista locale è di poche parole, ma molto esperta: è il mio primo safari e, come per ogni viaggio, sono partita all’avventura, essendomi documentata poco, così da lasciare che il luogo si possa svelare senza preconcetti o inutili aspettative.
Non vengo delusa: dopo aver visto cambiare il panorama, dall’ocra della savana bassa al verde intenso della foresta, punteggiata da solitari baobab dal collo di bottiglia, con i loro tronchi argentei ed i rami contorti, arriviamo al campo tendato permanente, da cui si gode una vista meravigliosa sul lago e l’area circostante. Scarichiamo i bagagli e pranziamo velocemente per partire subito all’esplorazione del parco del Lago Manyara, equipaggiati con binocoli e macchina fotografica. Occupato per buona parte dalle acque del lago, le cui rive sono paludose e non permettono di avvicinarsi, il parco è relativamente piccolo (360 kmq), ma presenta un ecosistema unico, dovuto alla presenza di sorgenti sotterranee che arrivano in superficie attraverso il suolo permeabile di origine vulcanica: ciò permette alla flora di essere ricca e rigogliosa, nonostante le basse precipitazioni, e quindi di attirare una fauna variegata e uccelli in grande quantità.
Ma il Lago Manyara ci introduce anche alla fauna più tipica della savana, gli erbivori, che saranno i nostri compagni di viaggio per i prossimi giorni. Così familiarizziamo con le gazzelle di Grant e di Thompson – queste ultime più piccole, distinguibili a distanza dalle Grant per un striscia nera sul fianco e per il codino sempre in movimento –, che ci attraversano ripetutamente la strada; con gli impala, una specie di gazzella di Grant con una macchia nera sotto la pancia verso le zampe posteriori; con i bufali africani dalle corna spesse e pesanti, lunghe fino a 162 cm, dal carattere e sguardo decisamente poco socievole; con gli elefanti africani, che sbucano inattesi dagli alberi o pascolano in branchi negli spazi aperti; con le giraffe Maasai, splendide nella loro altezzosità – in tutti i sensi! –, curiose e timide allo stesso tempo; con gli ippopotami che nel loro stagno passano tutta la giornata a rinfrescarsi e a sentire meno il proprio peso (dai 1.700 kg alle 2 tonnellate), lottando per il posto che il rango all’interno del gruppo permette loro, sornioni e all’apparenza tranquilli; con i francolini collorosso e le faraone mitrate che beccano ai bordi della pista; con i facoceri, dall’aspetto primitivo e per nulla gradevole, ma simpatici e gregari; con gli sciacalli, veloci nel comparire e altrettanto veloci nello scomparire nel sottobosco. Alla fine della prima tappa il bilancio è molto positivo: tre dei famosi “Big Five”, i cinque animali che venivano cacciati nei safari tradizionali (il leone, il leopardo, l’elefante, il bufalo e il rinoceronte, oggi fortunatamente protetti) si sono lasciati ammirare e fotografare, oltre ad un elevato numero di altri animali che ritroveremo negli altri parchi.
La seconda tappa del safari prevede lo spostamento (percorso di circa 300 km), lungo una strada sterrata di difficile percorrenza, al parco del Serengeti (pronunciato Serengheti, dal Maasai siringet, che significa Grandi Pianure), il più vasto (14.763 kmq) e antico (istituito nel 1951) della Tanzania. Teatro della più grande migrazione, ed ultima ancora presente sul nostro Pianeta, di erbivori, soprattutto gnu, il Serengeti è un’enorme pianura con rare acacie ombrellifere, dove il solo limite è l’orizzonte. Qui, ovunque si volga lo sguardo, si vedono enormi distese di savana punteggiata di animali, soprattutto gnu e zebre, che pascolano insieme e si avvertono a vicenda: gli gnu hanno olfatto e udito molto sviluppati, ma ci vedono poco, mentre le zebre hanno una vista acutissima, ma un pessimo udito!
Nel perfetto ecosistema che è il Serengeti ogni erbivoro ha una sua posizione nella catena alimentare della disponibilità dell’erba: al vertice sta l’elefante che ha bisogno di 300 kg di cibo, con erba lunga da strappare; seguono a pari merito bufalo e ippopotamo, che strappano l’erba semi-lunga; al terzo posto della catena si piazza la zebra, che strappa l’erba corta dopo che sono passati bufali e ippopotami; al quarto troviamo lo gnu, che taglia con i denti l’erba molto corta dopo che è passata la zebra; al quinto e ultimo posto si trovano le gazzelle, che sono in grado di rasare l’erba, tagliandola filo per filo con i propri denti. Ecco perché gli erbivori stanno tutti insieme nelle vaste pianure del Serengeti, non solo per difendersi dagli attacchi dei predatori, ma anche perché ognuno si è specializzato nella ricerca del cibo, adattandosi all’ambiente così da sfruttare al meglio quanto reso disponibile dagli altri animali
La terza tappa ci porta all’interno del cratere del Ngorongoro, passando per il sito della gola di Olduvai, culla dell’umanità. Verso oriente, al limitare del Serengeti si arriva ad un posto di osservazione da cui si ha una vista impressionante su una grande valle, profonda fino a 150 metri, nata dall’erosione del fiume Olduvai nel terreno vulcanico. Qui, a partire dal 1931, in alcune spaccature formatesi nel terreno a seguito di attività sismica risalente a circa 500.000 anni fa, gli antropologi Louis e Mary Leakey hanno ritrovato fossili e artefatti appartenenti ad ominidi della specie Australopithecus boisei (o uomo schiaccianoci) e Homo habilis. Altri insediamenti, sempre nella stessa zona, furono in seguito abitati dall’Homo erectus e forse da quello di Neanderthal. Queste scoperte hanno dimostrato che la storia dell’evoluzione umana non fu un processo lineare, bensì un percorso ricco di insuccessi e nuovi tentativi. La scoperta però più importante, che ha reso così celebre questo burrone lungo 48 km, è stata fatta da Mary Leakey nel 1972 a Laetoli, circa 40 km a sud di Olduvai. Si tratta di impronte fossilizzate di ominidi, due adulti e un bambino, che risalgono a oltre 3 milioni e mezzo di anni fa e sono la prova decisiva che gli ominidi avevano una postura eretta già in un periodo di molto precedente a quanto si pensasse in quel periodo. Oggi il sito di Laetoli non è visitabile, ma al museo della gola di Olduvai è presente un calco delle impronte: qui si vede distintamente che l’alluce è parallelo all’asse del piede ed avvicinato al secondo dito, e ciò dimostra che i due adulti ed il bambino, che hanno camminato sulla cenere vulcanica, poi fossilizzatasi, avevano una postura eretta e non usavano più i piedi per arrampicarsi – come fanno invece i primati, che hanno l’alluce più corto e divaricato rispetto all’asse del piede.
Lasciata la gola di Olduvai con la convinzione di essere animali tra tanti altri, arriviamo al bordo del Ngorongoro, al Crater View Point, 2.216 metri sul livello del mare, da dove si gode di una vista mozzafiato sull’interno dell’antico vulcano. Con i binocoli si può iniziare a scrutare dentro la caldera: dei punti neri sparsi nella piana risultano essere bufali al pascolo.
Lasciato il cratere del Ngorongoro, ci dirigiamo verso Arusha e poi puntiamo verso Sud per raggiungere la quarta e ultima tappa del viaggio: il parco del Tarangire (pronunciato Taranghire), 2.600 kmq di territorio fatto a parco poiché la presenza massiccia della mosca tse-tse ha impedito di sfruttare diversamente l’area come terreno per il pascolo. La strada è sterrata e polverosa, il paesaggio arido e grigio, le povere capanne rotonde di paglia, i bambini cenciosi. Scopriamo dei negozietti di bigiotteria fatta con le tipiche perline Maasai: sono semplici capanne dove lavorano donne locali con i loro bambini piccoli in braccio, i gruppi di sviluppo femminili locali, recitano i cartelli lungo lo sterrato, scritti con la vernice su una tavola di legno. Ci fermiamo a comprare. L’autista-guida si ferma con riluttanza: qui non avrà la provvigione come nei negozi di artigianato locale nei quali si ferma con la scusa di riposare o per farci andare al bagno. I gioielli sono ben fatti, curati, e richiedono un lungo lavoro di confezionamento. Compro braccialetti di perline coloratissimi, più del necessario, da regalare mi dico, ma poi so che li terrò per me perché mi ricorderanno le donne Maasai del Tarangire. Contratto sul prezzo, un po’, senza esagerare perché è già vicino a quello giusto. Quando ho finito di pagare, la donna con cui ho contrattato il prezzo saluta la chiusura della transazione con un urlo direi propiziatorio, di buon auspicio, suggellato poi da un lungo, caloroso abbraccio. Del Tarangire mi rimarrà nel cuore questo gruppo di donne, dal sorriso appena abbozzato, dall’aria di chi ha difficoltà ad assicurare un futuro ai propri figli, dai vestiti tipici un po’ polverosi ma puliti, decorosi, ma che avrebbero dovuto essere mandati in soffitta da tempo.
Poco prima di tornare al campo tendato per recuperare i bagagli e raggiungere nel tardo pomeriggio l’aeroporto di Arusha-Kilimanjaro in tempo per il volo notturno di linea KLM di ritorno, su una roccia, ben mimetizzata, tranquilla mentre scruta l’orizzonte e osserva una famiglia di elefanti rotolarsi nel fango, vediamo una leonessa: il nostro ultimo saluto dalla Tanzania, in attesa ti tornare a visitare i parchi del Sud. Già prima di ripartire si sente il mal d’Africa, la nostalgia di chi non vuole lasciare questa dimensione unica, magica.
A chi mi ha chiesto cosa ricordo della Tanzania, la mia risposta è stata: i grandi spazi aperti del Serengeti, dove il limite è l’orizzonte, e la libertà ed energia vitale che gli animali e la Natura hanno saputo trasmettere, nella continua lotta tra preda e cacciatore. Kwa heri (arrivederci), Tanzania.
Alda Benazzi