La sensazione è nuova allo spettatore: mentre si ride ci si sente acuti, sottili, intelligenti e si dimentica l’imbarazzo della risata forzata da barzelletta. Merito di uno humor raffinato che eleva ad un tempo cinema di genere e, scusate se è poco, anche lo spettatore. Woody Allen è storia, non solo di cinema. E se i contemporanei sono unanimi nell’attribuirgli valori e qualità, è indubbio che lo saranno anche i posteri, cui non sarà certamente riservata la solita “ardua” sentenza.
Una carriera già vecchia di quarant’anni: lungo termine durante il quale Eric Lax, giornalista dalla culla, nonché amico e confidente di vecchia data del regista, ha pensato bene di frugare dentro le tasche del proprio mestiere, riprendendo continuamente in mano la rigorosa scartoffia di interviste alleniane via via accumulate. Sono carte vecchie e nuove, testimonianze di un duro lavoro, di una stima reciproca e di una carriera. Quella di Allen, ovviamente.
Il risultato è un volume di quattrocento pagine, già in circolo negli Usa da qualche mese, adesso edito nel belpaese da una Bompiani che ha liberamente tradotto l’originario e descrittivo “Conversations with Woody Allen” nel più soggettivo “Conversazioni su di me e tutto il resto”.
Lax incontra per la prima volta Allan Stewart Konigsberg quando il decennio settanta è appena agli inizi, proprio come la carriera del suo interlocutore. E’ passato solo qualche anno dagli allori della critica per “Prendi i soldi e scappa” e manca veramente poco alla definitiva consacrazione artistica di un regista che si dimostrerà prolifico e talentuoso.
L’intesa tra i due non si fa attendere: le interviste si infittiscono col passare degli anni e, assumendo sempre più la regolarità di un piacevole rituale, si trasformano lentamente di tono, virando sempre più verso il colloquio e la confidenza.
Conversazioni lunghe, animate dalla libertà di esplorare ogni minuta porzione di conversabile e dalla necessità di assecondare le grandi ossessioni del regista: cinema, jazz, psicanalisi, amori vissuti e persi. Non c’è limite di tema o censura spontanea, neanche quando si salta dal pubblico al privato, dal racconto alla confessione.
Tra aneddoti sfavillanti di star system, dichiarazioni di poetica e battute folgoranti si giunge al capolinea dell’ennesima autobiografia mascherata di un’artista che certamente ama parlare di se.
Forse perché, al di là di ogni superficiale autocompiacimento, preferisce essere il primo e unico studioso di se stesso, delle sue visioni, delle sue idee.
I piccoli, celebri fogliettini, per lunghi anni raccolti nei cassetti, testimoniano: prima di getto inchiostrati dall’impulso a concretizzare il pensiero, poi in un secondo momento analizzati da una personale e spietata dogana autocritica.
Ed è per questo che, parlando di Woody è preferibile andare al di là del grattacapo ermeneutico da cinefilo incallito: il modo migliore per ben interpretare il tutto tondo della sua poliedrica figura è probabilmente quello di assecondare immagini, situazioni e dialoghi di una lunga filmografia e le parole, sempre leggere, mai stupide, regalate ai microfoni e alle pagine di turno.
A filmografia e bibliografia esaurita, il consiglio evidente è di seguir il nuovo odor di stampa: in libreria, tra gli scaffali delle novità, pagine nuove dall’ironia familiare di una geniale “doppia v” del cinema, che non si prende mai troppo sul serio:
“Sono fermamente convinto che se da morto ti intitolano una strada, questo non servirà a migliorare il tuo metabolismo…Ho visto quello che è successo a Rembrandt, Platone e altri bravi ragazzi. Ho espresso il concetto in modo migliore in una mia battuta: Anziché continuare ad abitare nel cuore e nella mente delle persone, preferirei continuare ad abitare nel mio appartamento”.
Pietro Romeo
(nella foto Woody Allen)