E dire che nessuno avrebbe scommesso su quello studente pessimo e pluribocciato, che per sopravvivere si arrangiava con lavoretti vari, un giorno operaio, l’altro facchino… Almeno, fino all’agognata ammissione all’Actor’s Studio e, soprattutto, all’incontro fatale con il maestro Lee Strasberg. Dal teatro al cinema, con qualche telefilm in mezzo, Al Pacino diventa un mito che cresce interpretazione dopo interpretazione, grazie all’aiuto dei migliori registi di Hollywood, da Francis Ford Coppola a Sidney Lumet, passando per Brian De Palma e Sidney Pollack. Ottiene per altro i riconoscimenti più prestigiosi: prima il Golden Globe per Serpico, poi l’Oscar per Profumo di donna, mentre sul versante italiano si aggiudica il Leone d’oro nel 1994 e, adesso, il Marco Aurelio alla carriera al Festival Internazionale del Film di Roma.
Dopo Venezia, adesso è Roma ad omaggiarla con il premio alla carriera: come ci si sente?
Onorato. E felice. Un attore è come se vivesse di continuo in “Sei personaggi in cerca di autore” di Pirandello. Sempre alla ricerca del ruolo giusto, nei limiti del possibile e delle opportunità che ti propongono. E comunque poi hai fame di recitare e continui a farlo, perché non potresti fare altro.
Lei però è un attore di teatro prestato al cinema, le piace questa definizione?
Assolutamente, è proprio così. E tornare a teatro è uno dei miei più grandi desideri, non solo perché sono un artista, ma perché amo le rappresentazioni dal vivo. Il teatro è qualcosa che mi riempie. Non oso paragonarmi al grande Orson Welles, però lo capisco quando si definiva “dato in prestito” al cinema.
Quali altri progetti ha nel cassetto?
Vorrei uscire un po’ dal mio giardino, mi sto dedicando ad una serie di idee, lavorandoci da ben tre anni ormai. Cose nuove, perché il cinema è giovane e l’aspetto del nuovo va sempre valorizzato, saltando la tentazione di riproporre sempre opere vecchie.
Nella sua carriera, fra i vari ruoli interpretati, spiccano soprattutto quelli di personaggi sospesi fra ombra e luce, spesso più tesi verso la prima. Come mai continua ad accettarli, cosa le scatta dentro?
Iniziamo col dire che non amo leggere le sceneggiature se non so già qual è il mio personaggio, lo trovo buffo. Per il resto, mi piace il chiaroscuro, è quello che ho sempre riscontrato anche nella vita privata. Nel mio lavoro, poi, il dualismo diventa interessante, molto più di ruoli unidirezionali: recitare mi consente di esplorare tutto il mio lato oscuro, un buio che nella vita di tutti i giorni non esce. Perché magari prevale la mia parte più leggera.
Ci parli di Robert De Niro, nome che è stato spesso affiancato al suo, imprescindibile dopo il vostro ultimo film insieme: “Sfida senza regole”
E’ sempre un gran piacere lavorare con lui, lo conosco da metà della mia vita. E’ un artista generoso, sensibile e comprensivo verso i colleghi. Capisce il cinema, sa entrare al meglio in un ruolo, ha una specie di feeling con i personaggi che interpreta. Condividere è essenziale quando si lavora sul set.
Quindi più che di rivalità si può parlare piuttosto di condivisione, adesso, fra voi?
Quando eravamo più giovani vivevamo situazioni più competitive, avevamo bisogno di dimostrare e questo ha creato inevitabilmente una distanza fra di noi. Però con il passare degli anni siamo riusciti a colmarla ed ora è un vero spasso lavorare insieme.
Ci racconti ancora di questo periodo in cui, da giovane, doveva affermarsi a Hollywood: quali sono i rischi per un aspirante star che tenta la scalata al successo?
Quando ci si inizia ad affermare nella carriera da giovani, beh, si perde il contatto con la realtà. I piedi non sono più fissi a terra e allora ti serve qualcuno con cui confrontarti, con cui avvertire la fratellanza di un percorso simile magari, com’è stato fra me e Bob (Rober De Niro, n.d. R.). E’ questo che ti aiuta ad affrontare l’altro lato del successo: come essere umano, se non hai nessuno è francamente difficile farcela. Serve qualcuno accanto che ti faccia sentire che non sei solo con i tuoi problemi.
Claudia Catalli
(Nella foto l’attore Al Pacino)