La Tuscia è bella, ma stellata è meglio

Uno scorcio del centro storico di Viterbo. Credits: Videosolution.it

Danilo Ciavattini e Lorenzo Iozzia sono gli chef che hanno reso la Tuscia viterbese un territorio gourmet. Loro i ristoranti entrati nell’ultima Guida Michelin, loro le stelle che risplendono nel cuore dell’Italia.

Nel viterbese, un lembo di terra laziale popolato da colli e laghi e solcato dal Tevere, la gastronomia sta conoscendo rinnovato splendore. Merito anche, se non soprattutto, di due chef che sono entrati nell’ultima edizione della Guida Michelin, la Bibbia mondiale della cucina e riferimento internazionale per la valutazione della qualità dei ristoranti. Due professionisti insigniti del prezioso riconoscimento in uno dei territori più ricchi, dal punto di vista culturale e paesaggistico, di tutta Italia.

Per capire come la Tuscia sia rilevante dal punto di vista culturale basti pensare come una parola, entrata a tutti gli effetti nel lessico mondiale, abbia avuto origine proprio in questa terra. Forse in pochi sanno che il termine “conclave” è nato proprio qui. A Viterbo precisamente, un tempo città papale, dove nel 1270 per accelerare una nomina fin troppo prolungata, il popolo decise di chiudere letteralmente a chiave (da qui la derivazione latina cum clave) gli indecisi cardinali.

Basterebbe solo questo episodio per affermare come Viterbo, e il territorio della Tuscia in generale, sia tra i più ricchi di storia, tradizione e cultura di tutta Italia. In questa porzione di terra del centro Italia sorgono ville, parchi, borghi e luoghi di interesse che il mondo ci invidia ma di cui, purtroppo, molti italiani ne ignorano (o sottovalutano) l’esistenza. Da Civita di Bagnoregio a Villa Lante, dal Parco dei Mostri a Villa Farnese, passando per il Parco archeologico di Vulci al Bosco del Sasseto solo per citarne una piccolissima parte. Non basterebbero le pagine di questa rivista per parlare in modo esaustivo di tutte le bellezze, architettoniche, naturali e paesaggistiche, che la Tuscia riesce a offrire. Sarebbe difficile dopotutto descrivere minuziosamente, una per una, le piazze, le strade e i vicoli storici della città principale di questo lembo di terra: Viterbo. Proprio in uno di questi vicoli, in pieno centro storico e a due passi da una delle fontane principali della città (Fontana Grande, risalente al 1212, che da il nome alla piazza) sorge l’unico ristorante cittadino che può vantare la stella Michelin.

Danilo Ciavattini
Credits: Videosolution.it

Danilo Ciavattini: la Tuscia è servita

Lo chef che ha fissato Viterbo nella cartina geografica delle città gourmet è Danilo Ciavattini che, con l’omonimo locale, permette ai clienti di assaporare piatti tipici del territorio rivisitati in chiave moderna. Chef Ciavattini ha bissato nel centro viterbese la stella Michelin già ottenuta nel 2013 con il ristorante romano di Villa Laetitia, di proprietà di Anna Fendi. Lo chef, nato in piena Tuscia (Soriano nel Cimino) non poteva però non valorizzare quella che è la sua terra con quella che, nel corso degli anni, è diventata la sua cucina. La somma è presto fatta, una somma gourmet che poggia sulla tradizione di uno dei centri storicamente e culturalmente più ricchi d’Italia. Danilo ci ha aperto le porte del suo ristorante e ci ha spiegato la sua cucina fatta di territorialità e tradizione.

Chef, molti tuoi altri colleghi hanno girato il mondo trovando la propria affermazione lontano dalle loro terre d’origine. Tu ha viaggiato molto ma hai deciso di tornare a casa sua…

Sicuramente perché prima di tutto sono affezionato a questa terra e alla mia città. Il mio viaggio di formazione è stato comunque orientato verso un ritorno in quella che è casa mia. L’obiettivo è sempre stato quello: andare in giro per il mondo ma poi tornare qui nella terra che amo. In questo non ho mai avuto dubbi.

Molti tuoi piatti prendono spunto dalla tradizione per così dire povera della gastronomia del territorio. Su tutti forse l’acqua cotta è ciò che è più legato al viterbese, come si riesce a rendere un piatto appunto povero il centro di un menù stellato?

Come esempio l’acqua è perfetto. È un piatto della tradizione povera locale che ho voluto rivisitare in chiave gourmet. Non è un piatto che può essere soggetto a molte interpretazioni sia per ingredienti usati che per preparazione, non permette di muoverti molto. Ho capito che la vera forza di un ristorante è legata alla territorialità e alla cultura del cibo di quel territorio, quella è la più grande forza perché per un turista che entra in una terra nuova il miglior modo possibile per capire quel territorio è magiare i piatti, che nascono in funzione di quello che è il territorio d’origine. L’acqua cotta ha una storia contadina ma la tradizione non deve essere considerata un vincolo che ti lega a determinate preparazioni, ma è solo il legame che ti conduce al territorio, Poi puoi spaziare con l’innovazione e la tecnica. Se poi un piatto regge nel tempo è perché è valido, buono e apprezzato.

Paccheri con muschio di erbe selvatiche.
Credits: Videosolution.it

Il pubblico sembra sempre più in cerca di sapori e proposte esotiche, lontane. Tu invece ti sei affermato nel tuo territorio con i sapori del territorio stesso. È stato difficile far scoprire alla gente una nuova versione di piatti tipici del territorio?

Non faccio una cucina a km zero solo per utilizzare un prodotto locale che magari non mi piace. La mia è una cucina di ricerca del territorio, non ho mai perseguito una cucina che prevede l’inserimento nel menù di piatti dai nomi altisonanti ma che appartengono ad altre culture, non li sento miei e non li reputo giusto per il territorio.

L’idea di cucina cambia col passare degli anni e la maturazione personale e professionale?

Quando ho viaggiato ho creduto che quello che imparavo l’avrei riportato a casa. In fin dei conti è così, tutto serve per perfezionare la propria idea di cucina ma è fondamentale non farsi influenzare troppo per non snaturarsi e mantenere forte il legame col territorio. Le mie esperienze fuori mi hanno permesso di capire maggiormente la mia terra, di vederla da un’altra prospettiva e ho capito realmente la ricchezza gastronomica della Tuscia.

Programmi di cucina hanno reso più democratica, popolare l’alta cucina che magari fino a qualche anno fa era di interesse solo di una nicchia?

Per me l’hanno fatta conoscere meglio, una volta che entra in tv una cosa è normale che viene resa più popolare. Poi chi vuole capire una cosa, come per tutte le cose, cerca di approfondirla. Per l’alta cucina è lo stesso discorso.

Ormai l’aspetto visivo/estetico è allo stesso livello di quello legato al puro gusto?

Patata interrata.
Credits: Videosolution.it

È un discorso vasto e importante. Oggi c’è molta attenzione più al lato estetico del piatto che a quello del gusto. Il ragionamento del gusto ti compromette alcune cose, in fase di preparazione del piatto. Magari per conservare certi colori, certe sfumature di un prodotto di “sacrifica” il giusto modo di cucinarlo. O si va dietro al sapore o dietro all’estetica, è chiaro che tutti vorrebbero sempre il bello e buono, io ho sempre preferito ricercare la massima espressione gustativa.

Cosa cambia nella cucina e nella mente dello chef con la prima stella?

Dal giorno dopo l’assegnazione della stella abbiamo avuto un aumento incredibile delle prenotazioni. È stato un fatto molto positivo, per quanto riguarda la concezione è importante mantenere la coerenza di un luogo e di un certo tipo di cucina, perché è grazie a quella linea di pensiero che la stella è arrivata.

È cambiata quindi anche la clientela con la Stella?

Quando ho aperto il Danilo Ciavattini Ristorante avevo l’obiettivo di cucinare per la gente del luogo e sapevo che dovevo indirizzarmi verso la gente del posto. La base è stata quella e ho avuto un riscontro positivo, ci sono molti clienti della zona poi ovviamente man mano che il ristorante cresce inizia a variare anche la clientela, con turisti o gente semplicemente di passaggio.

Uno chef per ideare i suoi piatti parte da ciò che pensa possa piacere alla gente oppure dai propri gusti personali?

A me piace lavorare con quello a cui sono affezionato, quindi lavoro in base al mio gusto e cerco di presentare il piatto il più fedelmente possibile alla mia idea di cucina.

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Lorenzo Iozzìa: la Sicilia in tavola

Lorenzo Iozzia.
Credits: StudioMun

A pochi chilometri da Viterbo, nel comune di Vitorchiano, sorge invece un ristorante di cucina tipica… siciliana. Tutto frutto del lavoro di un sognatore giunto anni fa nella Tuscia, quel Lorenzo Iozzia che dalla provincia di Siracusa si trasferì in questo territorio per affermare, nel bel mezzo dell’Italia, i piatti della tradizione sicula. Una scommessa per un giovane chef in cerca di fortuna così lontano dalla sua terra, ma una scommessa vinta con il ristorante “Casa Iozzìa”. Casa, perché è fondamentale accogliere il cliente facendolo sentire proprio come se fosse tra le sue mura domestiche. Casa, perché alla fine è un po’ come essere lì, circondati dai sapori, profumi e sensazioni in mezzo ai quali Lorenzo è cresciuto, riposti in una valigia ideale al momento della partenza e riproposti nella Tuscia viterbese. Un mix, il suo, rivelatosi vincente. E stellato. Siamo entrati anche nelle cucine di Chef Iozzia che, tra un Crudo di Mazara e un piatto di spaghetti ai ricci di mare, ci ha spiegato la sua idea di cucina e di accoglienza.

Chef, hai chiamato il ristorante “Casa”, cosa c’è dietro questa scelta?

Il discorso di “casa” è legato all’accoglienza. Ho ristrutturato questa sala pensando di creare un ambiente tra il moderno e in dinamico che potesse rispecchiare quello che è il mio concetto di accoglienza. Dalla luce, ai colori, tutto deve far sentire il cliente come se fosse a casa sua, da quando entra nel ristorante a quando esce dopo aver mangiato, passando per tutto quello che avviene in sala e al rapporto con i ragazzi che lavorano qui.

È stato difficile affermare la tua cucina di ispirazione siciliana qui in piena Tuscia?

La gastronomia siciliana è apprezzata ovunque quindi non direi che sia stato difficile. Diciamo che la mia è più una cucina siciliana di ispirazione, non in purezza. Dietro c’è tutto un racconto dei miei ricordi, delle materie prime, di odori e sapori. È stato complicato comunicare questo tipo di lavoro e questo tipo di cucina. È difficile, quando non arrivano determinati riconoscimenti, essere considerato per il tipo di lavoro che si svolge. Dopo poi, quando questi riconoscimenti arrivano, hai sicuramente un’eco maggiore.

Hai notato dei palati differenti qui rispetto a quelli di casa tua? Una differente appartenenza al territorio pensi che comporti una diversa comprensione di sapore, di gusto?

Qui c’è una cultura molto legata al bosco, alla terra, alla cacciagione. Difficoltà particolari non ce ne sono state, chi viene qui sa che tipo di cucina lo aspetta. Ci sono molti palati che non percepiscono alcune sfumature, ma quello è normale, io quando propongo un piatto però cerco di far capire quello che voglio dire. Questa è la parte più complicata, far comprendere il messaggio che voglio dare.

L’alta cucina può esser compresa dalla massa?

Crudo di Mazara.
Credits: StudioMun

Per me può essere apprezzata da tutti, ma noto un po’ di paura nell’approcciarsi all’alta cucina. Questa, che spesso è stata anche estremizzata, oggi è una cucina di identità e di materia prima, di rispetto del prodotto che c’è nel piatto, si cerca di dargli uno sprint diverso. Tutti, per me, possono mangiarlo. C’è una paura di andare nei ristoranti magari che propongono menù degustazione perché si è frenati dalla quantità di cibo nei piatti, ma molti non sanno che di piatti ce ne sono molti perché questi menù sono molto lunghi. L’alta cucina, chiamiamola così, secondo me è per tutti ma sicuramente serve un giusto approccio da parte della clientela.

L’idea di cucina cambia col passare degli anni e la maturazione personale e professionale?

Evoluzione continua, di pensiero e di realizzazione. Nessuno pensa mai di essere arrivato, l’evoluzione è sia celebrale che nei piatti. Ogni volta che si fanno i menù c’è una maturazione, una modifica, e questo lo vedo io ma anche il cliente che magari viene da anni e si accorge che il piatto è mutato in meglio. È una maggiore maturità.

Uno chef per ideare i suoi piatti parte da ciò che pensa possa piacere alla gente oppure dai propri gusti personali?

Non posso fare una cosa che non mi piace. Non posso proporre una cosa che non mi appartiene e che non mangerei io in prima persona con gusto e golosità. Un piatto, prima di proporlo, lo assaggio io, i miei ragazzi di cucina e di sala e ne discutiamo. Ci sono piatti che nascono damblè, quasi da soli, ma sono casi rari. La maggior parte dei piatti di un menù sono frutto di mesi di tentativi.

Le sarde nella pasta.
Credits: StudioMun

Ormai l’aspetto visivo/estetico è allo stesso livello di quello legato al puro gusto?

Secondo me quello che vedi è, allo stesso tempo, anche quello che mangi. La parte estetica al 90% è poi anche quello che ti ritrovi in bocca, ci sono anche cose che certe volte sono nascoste nel piatto e quindi ti ritrovi un sapore che non ti aspetti.

Cosa ne pensi di questo exploit di programmi tv di alta cucina?

Non sono sicuramente un male, ma non sono un bene assoluto, finché si parlava di qualche trasmissione ci poteva stare ma ora è diventato un qualcosa di esagerato. C’è un’indigestione di questi programmi, siamo pieni di trasmissioni di cucina e molte di queste sono pieni di persone che di professione fanno altro. Questo ha portato in molti a considerarsi dei conoscitori dell’alta cucina. Dietro la ristorazione non c’è il piatto che si realizza in un’ora e mezza ma c’è tutto un mondo. Ho avuto clienti che avevano partecipato alle trasmissioni che poi hanno criticato la mia cucina. Se è una critica rivolta da cliente mi sta bene, ma spesso pensano di avere delle capacità particolari solo per aver partecipato a questo o a quel programma.

Cosa cambia nella cucina e nella mente dello chef con la prima stella?

Aspettarsela non si aspetta, la stella quando arriva arriva. Non c’è nessuno che lavora per ottenere la stella Michelin, ma si persegue una cucina che possa essere quanto più apprezzata. Il cambiamento c’è stato, sia nella ricerca da parte della clientela sicuramente più attratta, per quanto mi riguarda io non mi sento uno chef stellato perché io sono un imprenditore. Quando tu sei imprenditore sei responsabile di un mondo molto più vasto rispetto a chi è un “semplice” chef. Io sono uno chef stellato ma prima di tutto sono il capo di un’azienda con 12 dipendenti e con molte attività all’interno, ho una responsabilità maggiore data dal dovere di non dover sbagliare nulla.

Dopo la prima stella si pensa a lavorare per la seconda?

Si pensa a lavorare alla seconda ma prima di tutto per mantenere la prima. Qui dobbiamo fare sempre meglio ma non per la stella in sé ma prima di tutto pensando al cliente. Dobbiamo andare avanti, puntando mentalmente alla seconda stella con la consapevolezza che per entrare nel parterre dei bistellati, che ne conta appena 39, bisogna impegnarsi tantissimo, bisogna ingranare quella marcia in più per raggiungere gli standard tracciati da loro.

di Alessandro Creta

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BOX: A SPASSO PER LA TUSCIA

Villa Lante
Credits: Beatrice Vecchiarelli

Villa Lante a Bagnaia

Architettura e natura si fondono mirabilmente nell’incantevole Villa Lante, situata nella piccola frazione viterbese di Bagnaia. La sua realizzazione si deve a un alto prelato, il cardinale Gambara che ne avviò la costruzione all’inizio del XVI secolo. Veri protagonisti della location sono i giardini coi loro giochi d’acqua e fontane: queste conducono il visitatore dalle pendici alla cima di una collinetta, attraverso un percorso ascensionale fatto di numerosi riferimenti allegorici che si conclude con la cosiddetta Fontana del Diluvio.

A cura di Beatrice Vecchiarelli

Villa Farnese a Caprarola

Risale alla prima metà del ‘500 la splendida Villa Farnese di Caprarola, poco conosciuta a livello nazionale ma che meriterebbe decisamente maggiore considerazione. Alla realizzazione del palazzo hanno partecipato moltissimi artisti illustri del panorama rinascimentale italiano e ha coinvolto l’intera città attraverso un progetto urbano volto a creare il viale d’accesso alla villa. Ci volle esattamente un secolo per la sua edificazione, dal 1530 al 1630, durante il quale si decise di passare da un progetto per una dimora a carattere difensivo a quello di residenza estiva. Tuttavia fu mantenuto l’impianto a pianta pentagonale con cortile interno, tipico delle cittadelle fortificate dell’epoca.

A cura di Beatrice Vecchiarelli

Alla scoperta del bosco del Sasseto

Vicino a uno dei borghi più belli d’Italia, Torre Alfina, è presente il Bosco Monumentale del Sasseto. Questo luogo fiabesco ricco di sassi e foreste spettacolari è facilmente percorribile lungo sentieri storici e grazie a visite guidate si possono scoprire i segreti di questo sito perenne. Ben tutelato dall’uomo anche in antichità, il bosco ospita al centro una tomba in stile gotico che sorge in mezzo agli alberi, qui è sepolto il marchese Cahen, che fu uno dei proprietari. Il nome del bosco deriva dal fatto che in questo luogo sono presenti moltissime rocce laviche, alcune di queste hanno preso forme suggestive, grazie anche alla crescita del muschio, altre, sovrapponendosi, hanno formato piccole grotte, una di queste fu utilizzata durante la seconda guerra mondiale, come rifugio, dagli abitanti del luogo.

A cura di Francesco Barberini

Civita di Bagnoregio

La città che muore

È conosciuta come la Città che muore, dato l’aspetto decadente conferitole dalla posizione a picco su uno sperone di rocce di argilla, tufo e lava, ma Civita di Bagnoregio di morire non vuole proprio saperne. Ogni anno centinaia di migliaia di turisti percorrono il lungo ponte che porta fin dentro uno dei borghi più belli d’Italia, tra i più fotografati, fotogenici e invidiati che abbiamo nel nostro Paese. Il piccolo centro, che conta al suo interno appena una decina di abitanti, data la sua posizione “soffre” costantemente di una continua erosione da parte degli agenti atmosferici. Questo fenomeno nel corso dei secoli ha formato il rilievo che vediamo oggi, sul quale poggia Civita e che è alla base dei mutamenti morfologici del borgo … morente.

Il Palazzo dei Papi

È l’edificio più importante di Viterbo. Quando la città fu al centro del mondo cristiano è stata la sede, nella seconda parte del 1200, dei Papi che qui avevano scelto la loro dimora, sostituendola a quella di Roma. Come detto fu anche la location del più lungo conclave della storia e, oggi, questo edificio dalla straordinaria architettura medievale ospita durante tutto l’anno numerosi eventi e mostre. Iconica è la sua loggia, chiamata Loggia delle Benedizioni o Loggia dei Papi, perché era da qui che il neo eletto pontefice si affacciava al termine del conclave. Recentemente la piazza adiacente il Palazzo è stata anche location delle riprese della serie tv Catch-22, diretta da George Clooney.

Il Parco dei Mostri a Bomarzo

Uno dei luoghi più misteriosi e mistici del centro Italia, dove il significato delle opere e delle sculture rimane parzialmente ignoto. Realizzato nel 1500 e popolato da creature in pietra dalle fattezze mostruose il Parco è un posto dal senso criptico ed oscuro, sicuramente enigmatico. Sono spettacolari e inquietanti le opere in peperino: riprodotti draghi, elefanti e divinità antiche, con il mistero della casa pendente che è tra le “attrazioni” principali del Parco in cui, si narra, abiti il fantasma dell’ideatore il Principe Vinicio Orsini.

Cover ph. Credits: Videosolution.it