I TESORI IMPOSSIBILI DI DAMIEN HIRST A VENEZIA

I TESORI IMPOSSIBILI DI DAMIEN HIRST A VENEZIA

Damien Hirst, il “ragazzaccio” dell’arte contemporanea torna in pompa magna alla ribalta con un progetto ambizioso e megalomane, “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, che costituisce la prima grande personale dedicata al genio creativo britannico in Italia – dopo la retrospettiva realizzata presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli del 2004 (“The Agony and the Ecstasy”) – sotto la curatela di Elena Geuna, già curatrice delle monografiche di Rudolf Stingel (2013) e Sigmar Polke (2016) presentate a Palazzo Grassi.

La mostra si preannuncia sontuosa fin dall’estensione spaziale dell’area espositiva, ossia i 5.000 metri quadrati di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, le due sedi veneziane della Pinault Collection, dedicate per la prima volta entrambe a un singolo artista.

“Treasures from the Wreck of the Unbelievable” si articola come un progetto complesso, sfaccettato e dai molteplici livelli di senso, la cui realizzazione si è protratta per moltissimi anni, in un percorso di poiesi dettagliato e preciso, finalizzato a definire i contorni di un gigantesco gioco di finzione confezionata ad arte per essere percepita come reale: un inganno più autentico del vero.

Straordinaria nelle dimensioni e nelle intenzioni, la mostra racconta infatti la storia dell’antico naufragio della grande nave “Unbelievable” (Apistos il nome originale in greco antico) e ne espone il prezioso carico riscoperto: l’imponente collezione appartenuta al liberto Aulus Calidius Amotan, conosciuto come Cif Amotan II, destinata a un leggendario tempio dedicato al Dio Sole in oriente.

La storia ha inizio nel 2008, quando, al largo della costa orientale dell’Africa, fu scoperto un vasto sito con il relitto di una nave naufragata. Il ritrovamento ha avallato la leggenda di Cif Amotan II, un liberto di Antiochia (città della Turchia nordoccidentale), vissuto tra la metà del I secolo e l’inizio del II secolo d.C. Nell’Impero romano, un ex schiavo aveva ampie possibilità di avanzamento socio-economico mediante il coinvolgimento negli affari finanziari dei suoi mecenati e padroni di un tempo. La storia di Amotan, talvolta citato come Aulus Calidius Amotan, racconta che, dopo l’affrancazione, lo schiavo accumulò un’immensa fortuna. Orgoglioso delle sue ricchezze creò una magnifica collezione di oggetti provenienti da ogni angolo del mondo antico.

I leggendari cento tesori del liberto – oggetti commissionati, copie, falsi, acquisti e bottini – furono caricati tutti insieme sulla gigantesca nave Apistos (nome che nell’antica koinè greca significava Incredibile) per essere trasportati in un tempio appositamente edificato dal collezionista. Ma l’imbarcazione affondò, consegnando il proprio tesoro alla sfera del mito e generando così infinite varianti di questa storia d’ambizione, avarizia, splendore e ubris. La collezione rimase sul fondo dell’Oceano Indiano per circa duemila anni, prima che il sito fosse scoperto appunto nel 2008, vicino agli antichi porti commerciali dell’Azania (costa dell’Africa sudorientale).

Quasi un decennio dopo l’inizio degli scavi, la mostra di Hirst raccoglie insieme tutte le opere recuperate in quello straordinario ritrovamento.

“Alcune delle sculture sono esposte prima di aver subito qualsiasi intervento di restauro, coperte da pesanti incrostazioni di corallo e altre concrezioni marine che talvolta ne rendono la forma praticamente irriconoscibile. In mostra sono esposte anche serie di copie museali contemporanee degli oggetti ritrovati che immaginano le opere così com’erano nel loro stato originario”. Così recita la presentazione dell’esposizione: la mostra, dunque, promette di esporre i 189 oggetti recuperati da questo vascello, a cui Hirst si è interessato in prima persona finanziando le delicate e costosissime operazioni di recupero e di restauro.

UN CONCRETO IMMAGINARIO

Le cose in realtà non sono proprio come sembrano, in un ideale gioco di specchi tra artista e spettatore, Hirst richiede implicitamente al visitatore di immergersi dentro l’impossibile, sospendendo ogni incredulità e abbracciando la suggestione, come nell’orizzonte finzionale ma catartico del cinema e del teatro. Tutti gli oggetti esposti sono stati evidentemente realizzati da Hirst e dai suoi collaboratori, perché sono il risultato di una commistione tra materiali antichi e contemporanei, come il bronzo e l’oro con l’acciaio e i LED, e infatti lungo il percorso incontriamo busti di divinità egizie, greche e induiste inframezzate a statue di Topolino e Pippo, per non tacer dei modellini dei Transformers, di Mowgli intento a giocare con l’orso Baloo, fino ai due ritratti di Cif Amotan, il proprietario della favolosa nave affondata, che si rivelano essere due autoritratti dello stesso Hirst. L’opera è quasi una sorta di pretesto per prendersi gioco del mondo dell’arte, contribuendo allo stesso tempo alla costruzione di un materiale mitologico del tutto nuovo: pirandellianamente, “tutto sta in quel che volete credere” ribadisce l’artista stesso.

La mostra si sviluppa a partire da questa ambivalenza tra realtà e finzione, tra concreto e immaginario: il recupero dei tesori è documentato attraverso fotografie, video e da un filmato proiettato a Palazzo Grassi, a completamento delle didascalie di descrizione degli oggetti esposti. Le opere sono di fattura contemporanea e con incrostazioni marine fasulle, tanto che risulta legittimo pensare che i filmati siano essere stati girati con riduzioni in scala all’interno di un acquario, anche perché l’unica testimonianza dell’operazione di recupero è quella della giornalista Catherine Mayer. Prima dell’inaugurazione dell’esposizione veneziana, infatti, sul Financial Times Magazine è stato pubblicato un lungo reportage di approfondimento della Mayer, unica cronista ammessa a seguire i lavori preparatori della mostra. Si è trattato, racconta, di una immersione nelle acque profonde al largo della costa orientale dell’Africa (alla Mayer è stato chiesto di non rivelare l’esatta localizzazione), cha ha consentito ad una squadra di sub di recuperare dei tesori di varie forme e dimensioni dal fondo del mare in un’operazione costata alcuni milioni di euro.

“Questa è una possibile versione”, scrive ancora la Mayer, “nel primo o secondo secolo dopo Cristo, una grossa nave chiamata l’Apistos affondò in queste acque disseminando sul fondo del mare il suo carico di opere d’arte appartenenti al collezionista Cif Amotan II anche conosciuto come Aulus Cladius Amotan, destinate a un tempio dedicato al sole. Qualche volta il racconto di Hirst si espande e arricchisce di altri particolari: il relitto è stato scoperto per caso nove anni fa… Hirst è entrato nella partita come principale finanziatore del progetto di recupero archeologico e la mostra rappresenta la prima occasione per il pubblico di scoprire i risultati del ritrovamento”. Il New York Times si domanda se e quanti siano gli oggetti che Hirst ha effettivamente fatto affondare e poi recuperato, e quanti invece provengano direttamente dal suo laboratorio. Soprattutto, ci si continua ad arrovellare su quale sia l’ipotesi più interessante e avvincente, oltre che plausibile: che sia tutta una gigantesca finzione ben architettata, anche i filmati e il racconto della Meyer, oppure che il genio folle che anima l’artista abbia effettivamente spinto Hirst a realizzare l’affondamento di un vero vascello e il conseguente recupero dei suoi tesori. L’esposizione è totale e totalizzante: visitarla significa immergersi in un catalogo completo ed esaustivo di ogni tipo di espressione artistica del mondo antico. Sembra quasi che il tentativo pantagruelico di Hirst sia stato quello di recuperare, reinterpretare e così riscrivere i dogmi di tutta l’arte antica, in un sincretismo esplosivo con alcuni elementi fondanti di opere pop dirompenti e contemporanee, in una rivoluzione incredibile del tempo e degli stili delle varie epoche coinvolte.

La mostra parte non a caso da Punta della Dogana, una struttura risalente al Diciassettesimo secolo, simile proprio alla prua di una nave: al suo interno vengono custodite le statue più monumentali e non ancora sottoposte ad alcun tipo di intervento, ricoperte dunque di finte incrostazioni marine come coralli e conchiglie, e corrose dal mare.

Si parte da “Calendar Stone”, un calendario bronzeo che ricorda la Piedra del Sol, conservata al Museo Nacional de Antropologia di Città del Messico, uno dei calendari di pietra aztechi utilizzati per indicare in maniera ferrea le date delle cerimonie religiose ai fedeli e per predire eventi di portata cosmica, come l’Apocalisse. I calendari mesoamericani e aztechi, infatti, sono la chiara testimonianza di una concezione cosmologica del mondo altamente complessa: fu questa funzione di meccanismo di controllo ad attrarre William Burroughs quando concepì il suo romanzo cut-up del 1961, The Soft Machine (La macchina morbida), in cui narra di un uomo che nel corpo di un ragazzo messicano viaggia a ritroso nel tempo fino all’epoca maya.

Nei frammenti ricomposti del testo, Burroughs utilizzò il tema del viaggio nello spazio e nel tempo per alludere alla natura costruita della realtà. Il punto di partenza riassume dunque in sé tutti i significati del percorso e del viaggio che l’artista chiama a compiere: l’esperienza di un tempo malleabile che si avvita su se stesso creando una sorta di brodo universale di storie che raccontano moltissimo circa l’evoluzione delle formule e delle dinamiche di rappresentazione del mondo sensibile. Così proseguendo il cammino, ci si imbatte nella scultura monumentale bronzea di una donna su un orso: questa scultura è legata all’antica arkteia greca, un rito della maturazione durante il quale gruppi di fanciulle ateniesi imitavano i gesti di un’orsa mentre ballavano e compievano sacrifici. Tale approvata sfrenatezza serviva a placare Artemide, dea della caccia, irata per l’uccisione di un orso da parte degli Ateniesi. Se la pratica dell’arkteia mirava a espellere i tratti animaleschi della natura femminile in preparazione della vita domestica, questa figura sovverte la tradizione celebrando la ferocia insita nella divinità. Gli straordinari dettagli della scultura – parzialmente nascosti dalla proliferazione del finto corallo – sono stati ottenuti con il metodo della fusione a cera persa, il cui procedimento è quasi immutato da oltre cinquemila anni.

Andando avanti, ecco una teoria di torsi nudi greci in marmo rosa, i quali, stando alla didascalia, arrivarono in maniera misteriosa ai Surrealisti che li esposero a Londra negli anni Trenta, poi una parte di un piede colossale di Apollo con un topo collocato sopra, moltissime copie di teste di Medusa e una statua dell’Idra greca, il serpente dalle molte teste, che combatte con la dea indù Kali. L’opera “Metamorphosis” raffigura Aracne: le Metamorfosi di Ovidio presentano infatti la straordinaria cornucopia di miti greco-romani basati sul concetto di trasformazione.

La giustapposizione in questa figura della forma femminile classica, avvolta nel chitone, e della testa e zampe smisuratamente grandi di una mosca ricorda storie metamorfiche come quella di Aracne, una fanciulla lidia famosa per la sua abilità di tessitrice. La superba Aracne sfidò Atena in una gara di tessitura per la quale creò un sublime arazzo che ritraeva con grande maestria le trasgressioni degli dei. La dea, adirata, reagì trasformando Aracne in un ragno condannato a tessere in eterno. La storia può essere letta come una parabola sul potere dell’arte e sul perenne antagonismo fra creatività e autorità. Il tema della trasformazione, sia fisica sia metaforica, si estendeva oltre il regno del mito: nella danza greca del morphasmos, l’interprete imitava una serie di animali, dai quali, a turno, veniva spiritualmente posseduto. Aracne è qui trasfigurata in una mosca, un animale che ritorna spesso nell’iconografia di Hirst, ossessionato dall’idea e dalla rappresentazione della morte: la statua può essere considerata come la ideale evoluzione del celebre teschio e una interpretazione originale della bellezza classica, che finisce inesorabilmente nella decomposizione e nella morte. L’inventario degli oggetti è estremamente variegato: lingotti con iscrizioni greche, cinesi, maya e romane, elmetti, spade e vasi dai materiali più diversi, dal bronzo al vetro, all’alluminio, silicone, acciaio. Una statua raffigura Hirst e Topolino, ma la didascalia li descrive come Cif Amotan insieme a un suo amico. Le opere esposte a Palazzo Grassi, location elegante e istituzionale per eccellenza, sono realizzate ad hoc con materiali preziosi, oro, marmo, giada, argento, malachite, smeraldi e lapislazzuli, e accompagnate da esemplari ripuliti dai coralli o da copie museali ricostruite sulla base degli originali, immaginati prima dell’affondamento. Questa parte della mostra è quella maggiormente votata al citazionismo più spinto e quasi ludico: incontriamo una statua egizia con le fattezze di Kate Moss, un’altra con un tatuaggio che ricorda Rihanna, un’altra ancora con un piercing al capezzolo e l’aspetto di Pharrell Williams, una statua corrosa e incrostata di coralli che ricorda uno dei famosi cani di Jeff Koons, tra i modelli di Hirst. Il Centro di Archeologia Marittima dell’Università di Southampton propone una ricostruzione del vascello Apistos, immaginando anche cla disposizione delle opere all’interno dello scafo.

Il pezzo forte, che lascia senza fiato già solo per le proporzioni, è la gigantesca statua bronzea decapitata alta 18 metri, posta all’ingresso, nel cortile interno di Palazzo Grassi. Rappresenta forse l’antica divinità babilonese Pazuzu, il re dei demoni e del vento, o forse, come suggerisce Jan Dalley sul Financial Times, l’ego dell’artista. La mostra è infatti votata all’eccesso e all’opulenza e rischia di assomigliare ad un grido di autoaffermazione leggermente stonato, quasi che l’artista volesse a tutti i costi enfatizzare la propria grandezza. Forse per questo sempre Dalley scrive di una “visione follemente enfatica e sovrastante, un’accozzaglia quasi casuale di tesori che un tempo si sarebbe vista solo nelle collezioni principesche (ma che ora può essere realizzata da un artista miliardario)”. Jonathan Jones del Guardian invece ravvede un intento poetico pienamente riuscito proprio in virtù di cotanta sovrabbondanza:così, questo “museo immaginario non è soltanto impressionante, ma è commovente. Hirst condivide con noi la sua passione. Ovviamente ama l’arte, ama l’arte e il suo mistero inspiegabile. Traspare anche un amore per la storia o piuttosto un amore per il tempo. L’arte è modificata dal tempo come i vascelli sono modificati dal mare. Il cucchiaio di oggi è la reliquia meravigliosa di domani”. Tempo che scorre, caducità, morte e dissoluzione da una parte e, dall’altra, l’arte come strumento per tentare di combattere tutto questo: ecco i poli attraverso cui si muove la creatività di Hirst, il quale ha reso immortali alcuni animali immergendoli però nella formaldeide, un elemento tossico, di morte, che, secondo lui, “è pericoloso e ti brucia la pelle. Se lo respiri ti soffoca, ma sembra acqua. Io la associo alla memoria”. Per realizzare questa mostra ha affondato idealmente il suo sogno più ambizioso, trasponendosi a duemila anni di distanza, per poi recuperarlo, lucidarlo e presentarlo più forte e imbattibile che mai nella cornice di una storia straordinaria. I collezionisti sarebbero già pronti a sborsare tra i 500 mila e i cinque milioni di dollari per una singola opera: la verità è che Damien Hirst, piaccia o non piaccia, è in grado comunque di trasmettere con successo un messaggio complesso e articolato, che arriva diretto ed efficace sia ai critici sia alle persone comuni che visiteranno la mostra. Treasures from the Wreck of the Unbelievable si chiude con due mani in malachite che pregano: l’arte è quasi una religione, o almeno qualcosa che funziona se si crede in essa. La mostra di Hirst chiede al pubblico proprio questo grande atto di fede, per regalare a tutti una storia nuova, uno spiraglio di creazione fantastica dentro il grigiore della quotidianità, l’attestato della vittoria della fantasia sulla cementizia distruzione del tempo che passa inesorabile.

IL GIOCO GENIALE DI DAMIEN HIRST

Damien Hirst nasce nel 1965 a Bristol, cresce a Leeds e dal 1986 al 1989 studia belle arti al Goldsmith College di Londra. Durante il suo secondo anno, Hirst lavora all’organizzazione e alla curatela di “Freeze”, una mostra collettiva nota per essere stata il trampolino di lancio non solo per Hirst stesso, ma per un’intera generazione di giovani artisti britannici. A 16 anni Hirst fu portato da un suo amico, che studiava biologia, a visitare l’obitorio di Leeds, e rimase particolarmente affascinato dai corpi che si ritrovò davanti. Altrettanto importante per la sua formazione fu l’aver lavorato, come centralinista, per la M.A.S. Research, una ditta di ricerche di mercato. Li imparò che con una telefonata si può comprare qualsiasi cosa, anche uno squalo in Australia. Nell’occasione di dover comprare lo squalo, contattò il pescatore di pescecani Vic Hislop, che, per un compenso pari a seimila dollari, quattromila per la cattura e duemila per il viaggio sino a Londra, lo accontentò. Mente poliedrica e manageriale, nel 1997 si è concesso lo sfizio di girare un video per i Blur. Insieme a Matthew Freud ed altri, all’inizio del 1998, aprì Pharmacy, un bar-ristorante: una volta chiuso il locale, gli arredi, progettati da Hirst stesso, furono tutti battuti all’asta. A tal proposito, non bisogna dimenticare che le case d’asta maggiori, Christie’s e Sotheby’s in particolare, si sono prestate al gioco di alzarne le quotazioni in modo anche artificiale, con il risultato di alimentare il fuoco della spettacolarità e l’aura del personaggio.

Attualmente l’artista vive e lavora tra Londra e Gloucester. Noto principalmente per una serie di opere contradditorie e provocatorie, tra cui corpi di animali (come squali tigre, pecore e mucche) imbalsamati e immersi in formaldeide, vetrine con pillole o strumenti chirurgici o “mandala” costituiti di farfalle multicolori, o il celebre teschio ricoperto di diamanti, l’artista pone il tema della morte quale perno centrale di tutte le sue opere. A partire dalla fine degli anni ‘80, realizza infatti una vasta serie di installazioni, sculture, dipinti e disegni con il fine di esplorare le complesse relazioni tra arte, bellezza, religione, scienza, vita e morte. Con i suoi lavori – tra cui l’iconico squalo in formaldeide The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991) e For the Love of God (2007), calco in platino di un teschio tempestato di 8.601 purissimi diamanti – Hirst sfida i capisaldi del mondo contemporaneo, esaminando tutte le incertezze insite nella natura dell’uomo. Dal 1987 sono state organizzate in tutto il mondo oltre 90 mostre personali sull’artista; Damien Hirst ha partecipato, inoltre, a più di 300 mostre collettive. Nel 2012 la Tate Modern di Londra, in contemporanea con le Olimpiadi Culturali, ha presentato una grande retrospettiva sul lavoro dell’artista. Sono state organizzate mostre personali di Hirst anche al Qatar Museums Authority, ALRIWAQ Doha (2013-2014), a Palazzo Vecchio, Firenze (2010), all’Oceanographic Museum, Monaco (2010), al Rijksmuseum, Amsterdam (2008), all’Astrup Fearnley Museet fur Moderne Kunst, Oslo (2005) e al Museo Archeologico Nazionale, Napoli (2004). Hirst domina incontrastato la scena artistica britannica durante gli anni novanta, portandola alla ribalta internazionale: la sua veloce ascesa è strettamente legata alla vicinanza e promozione da parte del collezionista e pubblicitario anglo-iracheno Charles Saatchi, anche se le continue frizioni tra i due portano nel 2003 alla fine della proficua collaborazione.

Manifesto della sua poetica è il già citato The Physical Impossibility Of Death In the Mind Of Someone Living del 1991 (ovvero, L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo), consistente in uno squalo tigre di oltre 4 metri posto in formaldeide dentro una vetrina. Quell’opera divenne il simbolo dell’arte britannica degli anni novanta. La vendita dell’opera nel 2004 ha reso Hirst l’artista vivente più costoso dopo Jasper Johns. Intimamente legato non solo all’informale, ma anche all’action painting e alla pop art, è noto pure per le sue tecniche definite spin paintings, realizzate dipingendo su una superficie circolare in rotazione come un vinile sul giradischi, e spot paintings, consistenti in righe di cerchi colorati, spesso imitate dalla grafica pubblicitaria degli ultimi anni. Nel 1995 Hirst vinse il premio Turner, avendo la meglio sugli altri tre finalisti: Mona Hatoum, Callum Innes e Mark Wallinger, dopo essere già stato candidato nel 1992. Rivoluzionario è anche il suo approccio alla clientela, che lo vede spesso bypassare i canali tradizionali delle gallerie, vendendo direttamente al pubblico attraverso aste milionarie o art-shop dedicati, per cui la prolifica produzione seriale degli spot-paintings o degli spin-painting ed i lavori di più modeste dimensioni permettono a molti galleristi, ma soprattutto a privati, di possedere un pezzo “prêt-à-porter” di Damien Hirst. Collaborazioni di Hirst con maison di moda si incanalano all’interno di una tendenza di commistione sempre più frequente tra il mondo artistico e quello dello stile, talvolta confondendo e i confini (il motivo del “teschio” o degli spot colorati saranno mainstream nell’abbigliamento e nel design). Oggi, con “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, la megalomane personale esposta a Venezia, tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana, fino al 3 dicembre, omaggio sontuoso all’incredibile, racconto di una leggenda costruita abilmente “ad arte”, si apre un nuovo capitolo nella storia mai scontata di questo artista fuori dagli schemi.