Sergio Magalini si racconta in un libro: memorie di un giovane nonagenario

Sergio Magalini si racconta in un libro: memorie di un giovane nonagenario

Il Prof. Sergio Magalini, grintoso ultranovantenne (classe 1927), si racconta in un libro che è un inno alla vita, dove, ad una vera e propria passione per la Medicina – coadiuvata da studi e ricerche prima e dopo la laurea, conseguita a La Sapienza di Roma e approfondita per tanti anni negli Stati Uniti – si intrecciano curiosità eterogenee e un amore profondo per l’arte, declinata e visitata in molti modi.

Sergio Magalini: in un libro il suo inno d’amore alla vita

Professore com’è nata l’idea di scrivere ”Le Memorie di un giovane nonagenario?”

La passione per la scrittura l’ho sempre avuta, ma ho capito la sua valenza quando, da giovane, scrissi un giorno dei brevi racconti legati all’infanzia e li sottoposi a dei miei cugini: ebbero un grande successo! Da allora capii che, oltre ad avere un’ottima memoria, mi divertivo a scrivere e scrivendo dilettavo anche gli altri… Non ho più smesso.

Il suo libro è un viaggio attraverso il tempo…ma quale tempo per lei resta, tra tutti, quello più significativo e che ama ricordare spesso?

L’infanzia ad Amatrice, mio paese natale, è stato il periodo più bello, più spensierato. Ricordo che da bambino vivevo l’irrefrenabile desiderio di avventura e di scoprire il mondo ed è così che sono scappato da casa tante volte! Mia madre è stata una figura fondamentale nella mia vita, mi ha insegnato a essere curioso; mi insegnava molte cose, soprattutto me ne spiegava il significato. La curiosità di sapere mi ha sempre accompagnato nella vita e tuttora mi accompagna.

Nella controcopertina del libro si legge “Non muore il mondo che eterno rifiorisce a primavera. L’ho visto, ieri passando, un ramo di mandorlo in fiore…”

Avevo scritto due versi, a dire il vero. Poi li ho uniti. Sono versi che scrissi da ragazzo, nel febbraio del 1943, un periodo non esattamente tranquillo…era da poco finita la guerra eppure, la sensazione che ho avuto e che tutt’ora ho è che – nonostante tutto il male che noi uomini commettiamo – il mondo in modo ciclico rinasce sempre, e la vita continua a rifiorire. È in fondo la filosofia della mia vita.

Lei si definisce un divoratore di libri. Ma la sete di leggere nasce dal desiderio di scoprire l’uomo e l’universo o di comprendere più profondamente se stesso?

Credo entrambe le cose…L’universo è parte di noi, conoscerlo significa comprendere anche se stessi.

Dalla medicina alla pittura: quale relazione sentimentale o professionale trova per le due cose?

Proprio su questo argomento scrissi un grosso articolo in occasione della Conferenza di Marsiglia, ma ora sarebbe un po’ lunghetto e complesso da raccontare.

Ritengo che l’arte sia un fenomeno di comunicazione composta da tanti sottotipi, in cui un oggetto diventa espressione dell’immagine, proprio come nella lingua, basata su un sistema logico razionale che trova espressione verbale attraverso la prosa, la poesia, il paralogismo, il paradosso, l’utopia, il distopico, il distonico etc. Non sempre la lingua riesce ad esprimere al meglio la vita e il concetto di un oggetto che si vuole rappresentare, cosa che l’arte invece, attraverso la forma mimetica, iconologica, analogica, metaforica e simbolica, riesce a derogare e privilegiare. È proprio con il simbolismo che l’artista riesce a staccarsi dalla rappresentazione del fatto per esprimere l’essenza del fatto.

Lo studio – e poi l’insegnamento – della medicina sono stati la mia vita. In America, da giovane, all’inizio della specializzazione, ho avuto parecchie difficoltà per esempio con la lingua, non la parlavo bene… Mettevo al servizio degli altri le mie competenze ma facevo fatica a comprendere e a farmi comprendere. Poi sono migliorato, naturalmente, tanto che un giorno che ero a New York ho ordinato un panino in un bar e il barista in uno slang tipicamente U.S.A. mi chiese se ero di Boston…e fu per me una grande soddisfazione!

La professione del medico è delicata, sicuramente. La branca che avevo scelto poi – oncologia e, allora, i primi studi sulla chemioterapia – mi obbligava a confrontarmi tutti i giorni con la morte. Occupandomi di leucemia infantile, la morte dei bambini, specialmente, era tremenda, inaccettabile…Ne morivano molti, purtroppo. E il sistema statunitense ci imponeva di non assistere sempre lo stesso piccolo paziente, in modo da conservare la lucidità per poterlo curare senza affezionarsi troppo. Lo stesso avveniva con i bambini malati: non ci assegnavano sempre gli stessi, dovevamo “ruotare” anche se i piccoli cercavano un riferimento in noi. Sembra un metodo cinico, ma non è proprio così. Serve a mantenere quel distacco che aiuta a curare meglio. E nonostante l’enorme sofferenza che respiravo quotidianamente, cercavo sempre di trasmettere coraggio, speranza, forza di resistere. Davo un messaggio positivo, sempre. Mi sono abituato negli anni a convivere con la morte: non la temo, ho imparato ad accettarla con serenità, fa parte della vita.

Nell’arte uno crea, è lui stesso autore di ciò che fa, l’opera d’arte è essa stessa espressione, al posto di mille parole. Per quanto mi riguarda è un po’ come avveniva a Michelangelo davanti al blocco di pietra: c’è già nel materiale che vedo quello che desidero fare, basta “cavarlo”. Molte mie opere sono così, avevano già dentro quello che volevo significare…

Parlando di arte: lei sa benissimo che la “pareidolìa” è la capacità illusoria della mente, la tendenza ad immaginare o riprodurre o trasformare artisticamente un oggetto dandogli una forma, un’espressione attraverso la pittura, il ritocco. Nel suo libro, riferendosi ad una precedente pubblicazione – che se non erro risale al 2018 – cita gli “Straccali”, tavolette irregolari e multiformi che raccoglie sulla spiaggia e che anima con la sua arte. Alla luce di questi fatti, si sentirebbe di affermare di essere un pittore pareidolitico?

In un certo senso, sì. Molti miei dipinti rimandano a visioni e cose che già “immaginavo”, le ho solo fatte emergere dando loro una forma. È un po’ come vedere oltre, vedere il fantasma in un oggetto e tirarlo fuori. Quando guardo un oggetto e ne cerco la struttura, che può essere riferita ad un mondo reale, me ne vengono in mente più di una, però, dovendone scegliere solo una, sono costretto ad ucciderne altre mille, sentendomi un iconicida. Trovo comunque che la pareidolia sia uno strumento estremamente efficace per la pittura di qualsiasi tipo, perché permette di accedere a strati del subcosciente o della memoria collettiva, agli archetipi, che il sistema razionale non ci permette di raggiungere.

Se dovesse scegliere tra due mostri sacri dell’arte come Leonardo da Vinci – pittore, inventore, uomo di scienza, “anatomo patologo” di altri tempi – e Caravaggio – pioniere nel gioco delle luci, evocativo dall’ombra, artista dalle eccezionali capacità scenografiche – chi sceglierebbe?

È impossibile scegliere, sono due volti della stessa realtà…

Dal punto di vista scientifico sono forse più vicino a Leonardo. Quando per tre anni lavorai al volume “Dictionary of Medical Syndromes” ho confrontato centinaia di testi e di casi. È stato un lavoro molto importante, non c’era ancora internet che mi avrebbe permesso di fare tante comparazioni più facilmente…Molti, infatti, pensarono che si trattasse di un lavoro fatto a più mani e poi assemblato. Ma ho fatto tutto da solo ed è stato un testo fondamentale per tanti aspetti. Ricordo che un giorno arrivai a Philadelphia e vidi le vetrine di una libreria specializzata in testi di medicina completamente tappezzate del mio volume… È stata una delle emozioni più grandi della mia vita, un’enorme soddisfazione!

Ora una domanda che entra direttamente nell’intimo e che può apparire irriverente: leggendo il suo libro è pressoché inevitabile domandarsi perché con il gentil sesso lei ha sempre avuto una sorta di difficoltà relazionale. Perché un uomo della sua levatura, del suo fascino, della sua straordinaria cultura e simpatia non ha acquisito nel tempo maggior sicurezza e spontaneità nei confronti delle donne?

Ancora ai tempi dell’università soffrii moltissimo per un amore intenso verso una collega di studi, purtroppo non ricambiato…da allora, per paura di stare ancora così male, mi ritraevo ogniqualvolta mi si presentava l’occasione di impegnarmi in un rapporto stabile. Questo mi ha portato, purtroppo, ad assumere un atteggiamento a volte davvero crudele – con una persona, in particolare – tanto da evitare qualunque progetto di vita in comune. Mi ritiravo prima, per non soffrire…a volte sono stato spietato. E ora me ne dispiace molto, se avessi modo glielo direi che ho questo rimorso.

Al di là del messaggio autobiografico, il libro vuol essere in qualche modo un messaggio ben preciso per qualcuno in particolare o un consiglio che vuole indirizzare, ad esempio, alle generazioni future?

Beh, il messaggio di speranza che con questo libro vorrei trasmettere, specialmente ai giovani, è che la vita è davvero bella e, nonostante i dolori, le sofferenze, gli ostacoli, vale la pena di essere vissuta appieno. Goduta ogni giorno.

A questo proposito, quale luogo vorrebbe visitare dopo questo lungo e sofferto “lockdown”?

Mah, nessuno in particolare. Desidero solo buttarmi in acqua e fare una bella nuotata liberatoria! Ora sono costretto a camminare ma non è la stessa cosa…faccio più fatica, c’è la gravità. Mi manca molto il rapporto con l’acqua, mi ci sento bene, libero, è un istinto primordiale….

Lei compirà 94 anni il 27 luglio prossimo, ma ne dimostra 60. Ci sveli il segreto della sua eterna giovinezza…

La serenità di vita, aver acquisito un equilibrio grazie al quale non me la prendo più per cose di cui non ne vale la pena…E poi essere sempre curioso della vita.

Ha un sogno nel cassetto?

In realtà, sto lavorando ad un nuovo libro fatto di “lacerti”, un insieme di tutti quei “tagli e ritagli” di vita che ho tralasciato in queste mie “Memorie di un giovane nonagenario”.

Beh, allora buon lavoro, professore!

Grazie…

Intervista a cura di Maria Cristina Bagolan e Paolo di Pietro